lunedì 28 febbraio 2011

Vivi e lascia morire


In un memorabile racconto pubblicato in Italia nel 1973, Woody Allen ironizzava sull'ossessione, in passato tutta accademica, per la ricerca di manoscritti, notarelle, inediti di varia natura, dal quale lo scrupoloso erudito potesse evincere una nuova prospettiva su tutta l'opera di un autore (nel caso si trattava delle "Note di Lavanderia" di Hans Metterling, indimenticato artefice di opere seminali come "Le Confessioni di un Formaggio Mostruoso" e "Pensieri di un pollo"). Da un po' di tempo tale ossessione si è allargata all'editoria di consumo, ovviamente non per una seppur discutibile brama di conoscenza, quanto per sfruttare il più possibile il nome di uno scrittore trapassato, nella speranza di vendere qualche copia in più; Cristina Taglietti, in un articolo del Corriere della Sera del 21 gennaio scorso, analizza il fenomeno con particolare riferimento alle recenti uscite di bestseller post mortem: Bolaño, Crichton, Mark Twain (un interessante caso di pubblicazione a cent'anni dalla scomparsa, ma su indicazione dello stesso autore) fino a Bjorn Larsson, la cui moglie ha appena dato alle stampe (non ancora in Italia) "Millenium, Stieg ed io", un libro di memorie che dovrebbe anticipare (c'è una battaglia legale in corso con il padre e il fratello dello scrittore, unici eredi) il quarto libro della saga intitolato (ironicamente?) "La vendetta". Vedo già disegnarsi un sorriso sul volto dello scafato appassionato di musica: dalla nascita della registrazione fonografica, con l'avvento del 33 giri, ogni artista degno di questo nome - ma anche no - è stato costretto a subire, alla sua scomparsa - ma a volte anche in vita, causa contratti discografici capestro - qualsivoglia tipo di riesumazione musicale. I concerti innanzitutto, parliamo di quelli non ufficiali (Charlie Parker tanto per fare un nome, fu ossessionatamente registrato da Dean Benedetti, che per motivi di scarsità di nastro tenne soltanto i suoi assoli, poi raccolti nel monumentale "The Complete Benedetti Recordings of Charlie Parker"), i cosiddetti bootleg, che impazzarono nei tardi '70, con la loro copertina bianca e un foglio incollato con i crediti, nascosti negli scaffali più inaccessibili dei negozi, dove chiunque poteva trovarli, per poi 'godere' del rumore di fondo e degli applausi dei vicini dello sconosciuto registratore. L'arrivo del cd, con la sua falsa promessa di miglioramento acustico, rinvigorì il fenomeno: oltre alla ripubblicazione di tutto quanto già esisteva in vinile, il mercato fu invaso da migliaia di concerti, "demos" e "rare and unreleased recordings". La stretta legale che li ha fatti nuovamente scomparire, è stata riassorbita dal mercato ufficiale, che ha compreso quale potenziale business si potesse celare nello sfruttamento della psiche del povero collezionista. Adesso i concerti e le tracce inedite saltano fuori, spesso anche impeccabilmente rieditati, in aggiunta a costosissimi box o de luxe edition curati dagli stessi artisti se ancora in vita o da Fondazioni dedicate, presiedute da madri, vedove e sorelle inconsolabili e insaziabili: così tocca riscrivere le intere discografie di Jimi Hendrix, di Frank Zappa, di Jeff Buckley (un solo disco in vita, decine dopo il misterioso annegamento del 1997), ma anche di King Crimson, Who, per non parlare di Beatles e Rolling Stones... Anche in Italia modestamente ci stiamo dando da fare, per adesso con Gaber e De Andrè, prossimamente con... bè, lascio immaginare o sperare a voi chi. Ma tutto questo migliora la conoscenza dell'opera di un musicista? O serve soltanto a sfamare il nostro bisogno di trovare conferme, a elaborare il lutto per i parenti più stretti o a rimpinguare le casse di avidi discografici? Difficile discernere tutte queste componenti, spesso simultaneamente presenti in parti più o meno uguali. Per i sempre più tartassati collezionisti (o per i semplici fedeli di un culto laico quale quello di "Faber" ad esempio), non resta che aggirarsi tra gli scaffali dei negozi dei dischi come in un cimitero vivente, alla scoperta di nuove lapidi che possano colmare il nostro desiderio d'infinito: "But in this ever changing world in which we live in, Makes you give in and cry, Say live and let die, Live and let die".

lunedì 21 febbraio 2011

Douce France, cher pays de mon enfance


Dopo il successo della manifestazione del 13 febbraio, da più parti si è auspicata una reiterazione delle iniziative atte a favorire le dimissioni del nostro (?) Primo Ministro. C'è chi ha parlato di riempire le piazze tutte le domeniche, chi ha proposto di preparare un'edizione indimenticabile dell'8 marzo. La maggioranza invece, dopo la giornata "In mutande ma vivi" organizzata da Giuliano Ferrara con grande consenso di pubblico (pagato), ha deciso di contrattaccare in maniera decisa con un evento programmato per il 10 marzo alle ore 21 al Teatro degli Arcimboldi. La discrezione con cui è presentato, sia sul sito del teatro milanese, sia sugli sparuti manifesti affissi sui muri in città, così come la falsa prevendita in atto (tra i 20 e i 45 euro), non inganna l'attento osservatore: non ci troviamo di fronte ad un semplice spettacolo al quale chiunque potrà intervenire. Il prossimo concerto di Mariano Apicella sarà, infatti, lo snodo politico della Seconda Repubblica (o Terza, decidete voi in quale ci troviamo). I meno avveduti potranno credere che quella sera il cantautore napoletano (figlio d'arte di papà Tonino, fan nientepopodimenoche di Peppino Gagliardi e che ha addirittura iniziato la carriera in un ristorante di Abu Dhabi: tutte notizie tratte dalle sue note biografiche) presenterà semplicemente le sue canzoni: quelle dei primi tre album nati dalla collaborazione con Silvio (nel 2003 "Meglio 'na canzone", nel 2006 "L'ultimo amore" e "Napoli nel cuore") e quelle del disco nuovo già annunciato per l'autunno scorso e di cui non si è saputo più nulla ("il disco ha un titolo provvisorio: «Con l'amore si può»; «Se tu non fossi tu» sarà il pezzo di punta della compilation, sarà venduto anche come singolo e con il presidente Berlusconi stiamo pensando anche ad un video"; virgolettato tratto da un articolo apparso su il Giornale in data 29 agosto 2010). Certo, nell'imponente Scala-bis disegnata dalla matita di Vittorio Gregotti, capace di contenere quasi 2.400 persone, risuoneranno le rime di tutti gli immortali successi cofirmati dal duo; ma quando si spegnerà l'eco degli ultimi versi, un improvviso cambio di luci illuminerà il Cavaliere seduto in prima fila, circondato dai suoi più cari amici (Lele, Giuliano, Vittorio, Emilio, per parlare solo degli uomini). Quasi ritroso Silvio ascenderà al palco per un discorso che risveglierà le coscienze della nazione in vista delle imminenti elezioni (o del colpo di Stato, decidete voi). Trionfo finale e, a gran richiesta del pubblico acclamante, ancora una canzone, accompagnato da Mariano e la sua chitarra: "Pigalle", la stessa con cui il nostro Premier si mantenne alla Sorbonna in anni non sospetti. "C'est le grand marché d'amour, C'est le coin où déambulent, Ceux qui prennent la nuit pour le jour... Girls et mann'quins, Gitan's aux yeux malins, Qui lisent dans les mains, Pigalle, Clochards, cam'lots, Tenanciers de bistrots, Trafiquants de coco, Pigalle". Proprio vero, un uomo che si è fatto da solo e che, fin da giovane, sapeva dove sarebbe andato a finire. Bravò Monsieur le President!

lunedì 14 febbraio 2011

... del bel paese là dove 'l sì suona


Non ci sono né Gaber (“io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”), né Fabri Fibra ("voglio andare in Inghilterra, in Inghilterra sei al verde avrai un sussidio, in Italia sei al verde io non t’invidio”), ma nemmeno “Azzurro” e “Volare” che pure ben avrebbero rappresentato un’Italia che ancora credeva nei sogni. Stiamo parlando del Festival di Sanremo e della serata di giovedì 17 febbraio, Nata per unire,

dedicata ai 150 anni dell'Unità (dove avrebbero dovuto esserci l'inno partigiano “Bella Ciao” e quello fascista “Giovinezza”; ma, come ha affermato candidamente Gianni Morandi, “per non scontentare abbiamo deciso di toglierle tutte e due”). Quattordici canzoni, interpretate dai big in gara, scelte con criteri dettati dal più classico cerchiobottismo all’italiana, quasi un Manuale Cencelli della canzonetta, che ha ovviamente tagliato fuori una buona metà del paese (quella che davvero ascolta musica e che non guarda Sanremo). Vediamo le scelte e cerchiamo di comprenderne i reconditi motivi: si parte, in ordine cronologico (non sappiamo quello di presentazione al pubblico) dal 1842 con il “Va' pensiero” di verdiana memoria, che se pur cantato dagli Ebrei prigionieri in Babilonia è ormai l’inno ufficiale dell’Italia leghista (intona Al Bano, unico tenore leggero disponibile). Sempre a meta del XIX secolo si colloca “Addio,mia bella, addio”, inno patriottico per eccellenza (già remixato all’epoca da imboscati e disertori che cambiavano la terza strofa in “Addio mia bella addio,
che l’armata se ne va e però non parto io, ché invece resto qua”), scelto sicuramente per compiacere il ministro della Difesa La Russa (interpreta Luca Barbarossa, da sempre vicino al PD, per rimarcare che anche la sinistra è vicina ai nostri soldati). Sempre a metà ottocento risale “Mamma mia dammi 100 lire” (Max Pezzali),
un canto di emigrazione nato probabilmente in Veneto, molto diffuso in tutta l'area padana, ancora un gentile omaggio al fido alleato leghista. Del 1898 è invece “'O sole mio” di cui c’è poco da dire: scelta per compiacere forse Alessandra Mussolini o forse la vecchia DC di Rotondi, certamente tutto l’elettorato meridionalista in genere (canta Anna Oxa, di salde origini albanesi, perché terroni ed extracomunitari li rispettiamo entrambi). Nel 1915 Aniello Califano e Enrico Cannio scrivono “'O surdato 'nnammurato”, tono allegro e spensierato per la triste descrizione della vita di un soldato al fronte durante la Prima guerra mondiale, che soffre per la lontananza dalla donna di cui è innamorato. Ancora La Russa, magari in visita alle truppe italiane in Afghanistan. (Stendiamo un velo più che pietoso sul fatto che la canterà Roberto Vecchioni). Arriviamo al ventennio con “Parlami d'amore Mariù” (La Crus: era proprio necessaria la reunion?), resa immortale dalla voce di Vittorio De Sica, che la interpretò nel film “Gli uomini, che mascalzoni” di Mario Camerini. Siamo in piena era dei telefoni bianchi (lo status symbol del periodo); non ancora intercettati però, e qui il pensiero vola ai mille problemi del nostro Primo ministro con tutte le Mariù dei nostri giorni. Ancora ventennio con Patty Pravo (da non credere eh?) e “Mille lire al mese”, probabilmente voluta da Tremonti (ma a Confindustria e Marchionne non dispiacerebe, con l’inevitabile adeguamento in euro). Con “Mamma”, cantata all’epoca da Beniamino Gigli (e qui dalla neo-mamma Anna Tatangelo: lacrime a non finire) arriviamo al 1940; per la venerazione verso l’illustre genitrice del nostro premier non sembrano esserci dubbi sui motivi della scelta. Improvvisamente si salta di altri vent’anni ed ecco “Il cielo in una stanza”, l’amore bohémien con la canzone forse più celebre di Gino Paoli, parolata da Mogol, che in prima serata a Sanremo promette una bella mitragliata di SIAE per i due autori (Giusy Ferreri, speriamo non si lamenti come suo solito). Sei anni dopo ed è “La notte dell'addio” forse un monito per Fini, forse un regalo all’euro-parlamentare PDL Iva Zanicchi per una canzone di cui tutto si può dire, ma non che abbia fatto la storia d’Italia musicale (a cura del redivivo Luca Madonia con Franco Battiato). Del 1971 è “Here's to you” scritta da Ennio Morricone per i titoli di coda del film di Giuliano Montaldo “Sacco e Vanzetti”, dove la cantava Joan Baez: vocazione pacifista e cattolica (Modà-Emma). Ancora un Mogol, annata 1972, quando, appena separato dalla moglie, incontra il nuovo amore e lo consacra con “Il mio canto libero”, evidente anelito divorzista (arriverà qualche anno dopo in Italia), ma che testimonia anche di una destra laica che certo non vuol tornare indietro ai tempi dell’oscurantismo clericale. Il monumento alla paraculaggine è inconfutabilmente Davide Van De Sfroos con Viva l'Italia”: il cantautore, in passato al centro di polemiche per il dialetto lumbard e la sua presunta vicinanza alla Lega, si confronta con De Gregori (e cosa può dire qui la sinistra?) e la canzone che accompagnò i congressi del PSI per tutto il quindicennio di gestione craxiana. Omaggio inevitabile al leader maximo (del quale anche lo stesso De Gregori ha nostalgia: "se ripenso a Craxi credo che intellettualmente sia molto superiore a tanti politici di oggi”). Infine il titolo che più di ogni altro non rappresenta l’Italia (che evidentemente non è stata ancora fatta), ma “L'italiano”, in particolare quello fatto da sé: sarà
Tricarico a urlare a squarciagola, probabilmente con tutto l’Ariston in coro, quelle che potrebbero essere le parole pronunciate da Silvio Berlusconi di fronte ai giudici (se mai un giorno ci si troverà davanti): “Lasciatemi cantare
con la chitarra in mano,
lasciatemi cantare
una canzone piano piano.
Lasciatemi cantare,
perché ne sono fiero:
sono un italiano, un italiano vero”. Un’arringa difensiva al quale nessuno potrà resistere. E via, tutti in coro, per l’inno di Mameli finale. Il resto ovviamente è noia. No, non ho detto gioia.

lunedì 7 febbraio 2011

Sono solo canzonette


La consueta classifica annuale dei frequentatori del negozio e dei lettori del sito di Disco club ha visto trionfare l’inutile disco degli Arcade fire seguito da Beach House, National e Roky Erickson. A niente sono valse le richieste, più che motivate, di introdurre classifiche specifiche per generi, che avrebbero permesso visibilità a dischi meritevoli, ma che non dispongono dell’appeal ‘mediatico’, di un consenso generalizzato o trasversale necessario a entrare tra i piani alti della lista. Niente da fare, l’istanza è stata rintuzzata senza pietà, in ossequio a quel pensiero unico che da sempre pervade la comunità di cui sopra: unico il pensiero, unica la classifica. Niente a che vedere con gli Stati Uniti, il paese dove tutto è possibile, dove domenica 13 febbraio alle 20 (ora di Los Angeles) avrà inizio la cerimonia di premiazione dei Grammy Awards 2011, quelli che tutti per brevità chiamano gli Oscar della musica. Qui le categorie sono centonove (109), tra cui si segnalano una per le migliori note di copertina, una per i migliori box, una addirittura per il “Best New Age Album”, un genere di cui nessuno serbava ricordo e rimpianto (a una profonda analisi però, le categorie si riducono a centootto - 108 - perché nel 2010 il “Best Regional Mexican Album” non sarà attribuito per mancanza di concorrenti. Pazienza). Senza fare previsioni (chi è davvero in grado di sapere cosa pensano gli americani di musica, cinema e politica estera?) scorriamo alcune categorie: nel disco dell’anno troviamo sempre gli Arcade fire, presenti anche nel “Best Alternative Music Album” (ecco la cinquina completa: Band Of Horses, The Black Keys, Broken Bells, Vampire Weekend), oltre a un quartetto impresentabile composto da Eminem, Lady Gaga, Kate Perry e Lady Antebellum (due uomini e una donna, fanno country e ciò vi basti). Nel jazz la situazione non migliora: i candidati in lizza sono The Stanley Clarke Band, Joey DeFrancesco, Jeff Lorber Fusion, John McLaughlin, Trombone Shorty (vengono da New Orleans, ma sembrano i Raydio di Ray Parker jr.; se non sapete chi è, non indagate). Anche qui bisogna spulciare tra le tante righe per trovare “Historicity” di Vijay Iyer (il mio disco dell’anno) o Keith Jarrett (ma per il solo di “Body and soul” e non per l’intero “Jasmine”). Insomma la situazione è plumbea un po’ ovunque e anche l’estrema specializzazione non garantisce un livello qualitativo nella varietà proposta, a dimostrazione che il pensiero unico finisce per essere davvero un pensiero totalizzante. Non resta che fare da sé, ascoltando in giro e scegliendo quello che più ci aggrada, senza lasciarsi andare alla solita litania che non si sa dove ascoltare la buona musica: in rete tra YouTube, MySpace e le radio specialistiche (per gli amanti del jazz segnatevi questa per esempio: http://www.jazzradio.com/) c’è solo l’imbarazzo della scelta. Se poi sceglierete gli Arcade fire (che magari vinceranno anche un Grammy), peggio per voi; ma in fondo sono solo canzonette.

Un Amore Supremo

In occasione dell'uscita in edicola di A Love Supreme, primo titolo della collezione I Capolavori del Jazz in Vinile, sono andato a ria...