lunedì 11 luglio 2011
A love supreme
Non ricordo quanti anni avessi. Compravo Musica jazz, oltre a molte altre riviste (Gong, Re Nudo, Muzak, Stereoplay, tutte finite nella spazzatura, allora non differenziata, alla mia prima bocciatura liceale), che allora presentava la classifica dei dischi jazz più venduti. Al primo posto quell'anno era balzato "Interstellar space", un disco in duo di John Coltrane e il batterista Rashied Alì, che era stato pubblicato per la prima volta, primo di una fortunatamente lunga serie di inediti riscoperti. Preso dall'entusiasmo l'avevo acquistato subito, anche affascinato dalla splendida copertina e dopo un primo ascolto l'avevo accuratamente riposto, in attesa di tempi migliori, per tornare ai Deep Purple, a Neil Young e agli Wings. La voglia di distinguermi da tutti coloro che ascoltavano banale rock, mi aveva portato ad insistere: non ricordo se trascinato dal successo dell'inedito o perché anch'esso ristampato, in classifica era apparso anche "A love supreme"; stavolta mi ero premunito e dopo aver computato "Jazz" di Arrigo Polillo all'apposito capitolo, avevo deciso che lo avrei acquistato e che mi sarebbe anche piaciuto. Se qualcuno mi avesse chiesto qualcosa avrei potuto rispondere con le parole dell'insigne critico, in attesa di elaborare una dignitosa posizione personale. Avevo accumulato le 4.500 lire necessarie e alfine mi ero recato ovviamente da Disco club in via San Vincenzo; ero entrato e dopo aver bofonchiato un buongiorno timido e vergognoso mi ero aggirato alla ricerca del disco (mai avrei domandato dove fosse col rischio di uno sguardo compassionevole o peggio di una replica). Infine ero tornato a casa e in tutta fretta ero andato in sala dove riposava il mio misero impianto (lo Stereroama 2000 deluxe comprato da Selezione del Reader's digest). Avevo estratto il disco che in un picosecondo mi era scivolato e si era frantumato a terra. Non ricordo la mia reazione, ma non escludo le lacrime. Avevo raccolto i cocci e avevo cercato conforto in "Interstellar space". Lungi dal sembrarmi un segno negativo la sciagura si trasformò in un'esortazione all'ascolto di Coltrane. Qualche tempo dopo ricomprai "A love supreme", che diventò il secondo di una lunga serie di titoli che comprende oramai tutta la discografia ufficiale del sassofonista di Philadelphia (più qualche bootleg, certo). Non sono certo l'unico fan, né il più accanito: anzi è di questi giorni la notizia che un certo Steve Fulgoni sta cercando di salvare la casa di Coltrane dall'abbattimento, a Dix Hills non lontano da New York; e dopo essere riuscito a farla acquistare dal Comune sta cercando un milione di dollari per trasformarla in un centro dedicato alla memoria di John e della musica nera. Sempre di amore supremo si tratta e se non l'avete ancora fatto, leggetevi il bel libro di Ashley Kahn edito dal Saggiatore dedicato alla storia del capolavoro di John Coltrane. E ovviamente buon ascolto (facendo attenzione a estrarre il disco dalla copertina).
lunedì 4 luglio 2011
SuperHeavy?
Di gruppi costruiti a tavolino è piena la storia del rock (e della musica in generale). Tutte le anime candide che adesso si stupiscono di “X factor” o di “Amici”, fanno finta di non sapere (o forse non sanno) che, ad esempio, i Monkees furono costruiti dalla bella idea di un produttore americano - Don Kirshner - ansioso di contrapporsi al sorprendente e inaspettato successo dei Beatles. Dopo aver organizzato un concorso a mezzo stampa, nel 1965 scova quattro bellocci, produce una serie di telefilm trasmessi dalla NBC con grande successo e finalmente l’anno dopo pubblica il primo disco in cui trovano posto “Last train to Clarksville” scritta dal duo Tom Boyce e Bobby Hart e “I’m a believer” dalla penna di Neil Diamond. Altra storia per i ‘Supergruppi’, a volte un vero e proprio ricovero per anziane rockstar spompate e in crisi di idee (una specie di legge Bacchelli che non ricade ‘direttamente’ sulle schiene della comunità), altre una geniale intuizione, generalmente destinata ad avere vita effimera per le ingombranti personalità dei partecipanti. Difficile dire, in attesa del primo singolo che uscirà il prossimo 12 luglio o dell’album previsto per settembre, se i “SuperHeavy” appartengano a una di queste due categorie o se siano qualcosa d’altro ancora. Difficile perché le parole che ne preannunciano l’arrivo sono a dir poco entusiastiche: “una bomba” è l’incipit di Videtti su Repubblica che, forse influenzato dall’inaspettata trasferta nell’estate californiana, racconta che fin dalle prime note “è come se Rolling Stones, Eurythmics, Bob Marley e Aretha Franklin si fossero dati convegno con Nusrat Faateh Ali Khan per creare una nuova forma di canzone pop per uscire dall’impasse di questi anni”. Non c’è che dire, un’aspettativa gravosa, anche se ti chiami Mick Jagger (68), Dave Stewart (59), A. R. Rahman (45, doppio Oscar per “The Millionaire”), Damian Marley (33) e Joss Stone (24). (Tra parentesi gli anni dei protagonisti, che, certamente per caso, coprono i decenni di coloro che ancora acquistano musica legalmente). Disco registrato in diciotto mesi tra Cipro, Istanbul, Chennai, Caraibi, Miami, Costa Azzurra e Los Angeles, per la gioia della torma di producer, esecutivi e segretarie, che avranno dovuto organizzare il tutto senza irritare la fragile psiche delle star, spesso sconvolte dal non trovare il loro amato Sancerre alla giusta temperatura o gli asciugamani esattamente della morbidezza e del colore richiesto. Detto questo, può darsi che il miracolo avvenga (“Miracle worker” è infatti il titolo di singolo e album), il disco sia bellissimo e che nel 2012 (quando le vendite avranno fatto capire se ne vale davvero la pena) li vedremo sul palco tutti insieme. Magari con un’ulteriore guest, un hip-hopper di colore, massimo quindici o sedici anni, tanto per essere sicuri di coinvolgere col merchandising e i concerti, anche coloro che la musica se la scaricano solo illegalmente. E nella speranza che la conferenza stampa di presentazione del tour sia d’inverno, ma in un bel posto di mare nell’altro emisfero.
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