Non ho mai comprato un disco di Donna Summer, nemmeno un 45 giri. Non si poteva. La 'disco' (al femminile, dispregiativo, è un genere) era vietata, bollata come strumento con cui il capitalismo corrompeva le masse ingenue, allontanandole dal sol dell'avvenire e dall'imminente rivoluzione. Cazzate, ma questo lo avremmo scoperto solo molto tempo dopo. Il logo della Casablanca (l'etichetta per cui incise Donna Summer fino al 1980, un set cinematografico allestito in un oasi nel deserto, un paio di cammelli, un fortino di sabbia e sei palme con sullo sfondo le montagne dell'Atlante) lo vedevo tra gli scaffali della radio libera in cui mi affacciavo timidamente e sui Lenco L 75/S a cinghia sui quali imparavo a fare il disc-jockey. Perché, anche se alla sinistra non piaceva, per ballare in quegli anni era difficile trovare qualcosa di meglio di “Love to Love You Baby” o di “I feel love”. Per non parlare di “Mac Arthur Park”, “I remember yesterday”, “Hot stuff”, fino a quel singolo del 1979, “No More Tears (Enough Is Enough)", inciso niente di meno che con Barbra Streisand e arrivato dritto dritto al numero uno in tutto il mondo. Mi piaceva, ma non lo ammettevo nemmeno a me stesso; figuriamoci ai compagni del collettivo con cui celebravamo la grandezza di "Fabbrica occupata" o di "La Cantata Rossa Per Tall El Zaatar". Con la fine del periodo Casablanca e il passaggio alla Warner intanto per Donna era cominciato il lento, ma, come sempre, inesorabile declino. Ogni tanto riappariva in un duetto nostalgico, qualcuno riproponeva un suo vecchio successo, un film riprendeva un'irresistibile canzone: i riflettori si accendevano e lei ricominciava a ballare per un altro giro di dance. Qualche anno fa, mentre mi trovavo in vacanza a Parigi, mi sono perso in un negozio di bric-à-brac tra vecchie insegne pubblicitarie, cartoline in bianco e nero, juke-box rotti, frigoriferi della Coca Cola, lampade sbeccate. In un angolo, buttati per terra, un mucchio di dischi, quasi abbandonati; avevo cominciato meccanicamente a sfogliarli con la serena consapevolezza che non avrei trovato niente d'interessante, quando l'occhio era stato attirato da una copertina nera che ben conoscevo: “Thank God It's Friday”, colonna sonora dell'omonimo fiasco cinematografico in cui Donna, nel ruolo di un’aspirante cantante, stava sullo schermo pochi minuti, sufficienti a farle vincere un premio Oscar con “Last Dance”. Ė un doppio, ma dentro ci trovo tre dischi, uno dei quali inciso solo da un lato con una chilometrica versione di “Je t’aime moi non plus”, sospirata proprio da Donna Summer. D'impulso lo compro; finirà nella mia collezione senza mai nemmeno un ascolto. Fino ad oggi, per un tardivo e inutile omaggio a una delle più belle voci del secolo scorso. Last dance.
Post scriptum: ho scritto il mio personalissimo ricordo prima di scoprire che il 13 maggio in un albergo, dopo due concerti al Blue Note di Tokyo in compagnia del suo amico di sempre Steve Crooper, è morto Donald “Duck” Dunn, uno dei più grandi bassisti della storia della musica. (I più attenti ricorderanno che un altro grande bassista, Bernard Edwards, era morto nel 1996 in un albergo di Tokyo, dopo un concerto con gli Chic alla Budokan Arena; sinistri ritorni). A molti il nome di Dunn non dirà niente; forse i più attenti lo ricorderanno nella band che accompagnava John Belushi e Dan Akroyd, i Blues Brothers, che ispirò film omonimo. Alcuni sapranno che aveva suonato in centinaia di meravigliose registrazioni della Stax insieme a Booker T. & Mg's, Sam & Dave, Eddie Floyd, Wilson Pickett, Johnnie Taylor, Rufus and Carla Thomas, Otis Redding. Vicino a lui, sempre, la chitarra di Steve Crooper, che lo ha salutato così: "Today I lost my best friend, the world has lost the best guy and bass player to ever live."