Inutile negarlo, questa rubrica è una
filiazione diretta di una precedente, Disco Mix, iniziata su queste pagine nel
luglio del 2009 e terminata – ed è la prima volta che ne diamo notizia – nel
luglio scorso. Riprendere facendo finta di niente ci sembrava brutto e così
abbiamo cambiato anche il titolo, giusto per dare un segnale di discontinuità
in quest’epoca di velocissimi quanto apparenti cambiamenti. E qui vi
risparmiamo la citazione da Il Gattopardo,
che tanto la conosciamo tutti, e andiamo avanti più o meno come prima, a
scavare musica con la pretesa di trovarci qualcosa di inconsueto e inaudito,
remixando i segnali sonori che arrivano ormai da ogni luogo e da ogni tempo, a
scrivere non tanto con la pretesa di spiegare qualcosa, ma con la speranza di
capirci qualcosa.
L’inserto domenicale del Sole 24 Ore apre, crediamo per
la prima volta nella sua storia, con un lungo articolo dedicato a un disco di
jazz. L’onore è toccato Steve Lehman,
il sassofonista che ha appena pubblicato Mise
an Abyme, un lavoro in ottetto per il quale Arnold I. Davidson parla senza
mezzi termini di un disco epocale (anche la rivista francese Jazz Magazine nel
numero di settembre gli ha attribuito il massimo dei voti, così come John
Fordham sul Guardian).
Escludendo che sia finito in apertura per una presunta parentela del musicista
con i titolari della banca d’affari Lehman & Brothers, la cui crisi nel
settembre 2008 ha dato inizio simbolicamente all’attuale recessione e al di là
dell’aspetto musicale (ovviamente il consiglio è di ascoltarlo, con
l’avvertenza che ci si trova di fronte a un’opera piuttosto complessa, in
bilico tra caotica avanguardia e raffinata partitura scritta) che normalmente
lo avrebbe relegato negli scarni spazi dedicati alla musica, il motivo per cui
il disco si è meritato tanto lustro è il parallelo che pone il filosofo della
politica Davidson
(forse una breve introduzione su chi sia l’autore non sarebbe stata fuori
luogo) tra il jazz e i rapporti sociali tra individui: “La più vitale
tradizione democratica dovrebbe essere, per citare il titolo del primo disco di
Lehman, un insieme di lavoro, trasformazione e flusso (Travail, Transformation and Flow, album dell’anno per il New York
Times nel 2009). Nel solco di quanto scriveva Eric Hobsbawm nella
sua Storia sociale del jazz (ristampata l’anno scorso da Res Gestae), la politica e l’etica
sono esplicitamente invitati da Davidson a seguire l’esempio dell’estetica
musicale per trovare nuove vie verso la democrazia. Purtroppo l’autore oltre a
dimenticare di citare i musicisti del disco (rimediamo noi: Steve Lehman, alto
sax; Jonathan Finlayson, tromba; Mark Shim, sax tenore; Tim Albright, trombone;
Chris Dingman, vibrafono; Jose Davila, tuba; Drew Gress, basso; Tyshawn Sorey, batteria)
sorvola sul fatto che in un ottetto ci si riesce a mettere d’accordo, in un’orchestra
di trenta-quaranta elementi con un buon direttore anche, ma in un organismo
complesso e multiforme quale ad esempio il Partito Democratico forse l’idea di
suonare tutti la stessa musica è davvero improponibile.