Ho visto cose: calzini in filo di scozia blu dentro
Birkenstock marroni, ballerine col tacco, rosse e bucherellate, giacche di lino
su Merrell gommose, cappelli di paglia e occhiali sgargianti, vestiti
sbracciati in corpi opulenti in stivali estivi slabbrati, nasi rifatti, bocche
deformi, rossetti sbagliati. E smartphone e tablet alzati verso il tetto pur di
riprendere l’evento, un Presidente Regionale che parla di eccellenze e Renzo
Arbore che cita Paolo Conte (è in cartellone, insieme ai Subsonica, ma c’è
anche roba interessante, giuro), sì le donne non amano il
jazz. Per dargli ragione, un’ingioiellata in nero fuori luogo e tempo massimo, parla
al telefono, ribadendo stentorea dove si trova, incurante di Fresu e Rea che
provano a suonare – “O que sera, que sera”, mai titolo fu più adatto – tra i
convenuti che attendono solo il via libera per il buffet, tutta plastica
riciclata o qualcosa del genere, ingozzatevi pure, il pianeta non ne risentirà.
Poi ci si mettono anche loro, “Almeno tu nell’universo” ce la potevano
risparmiare, ma non basta, in mezzo a “E se domani” appare incredulo il tema di
“Parole Parole Parole” e sembra di essere davvero sul Titanic con la speranza
che l’iceberg arrivi presto e porti anche un po’ di fresco. Ma io sono
riconoscente a Umbria Jazz, e chi non lo è, nell’ottantasette ci ho visto
Dexter Gordon e subito dopo Stan Getz con Kenny Barron, Rufus Reid e Victor
Lewis, ancora mi sembra di esser lì, io e Marco Carbone che chissà che fine
avrà fatto. Il concerto è finito, il brusio ha raggiunto i decibel di uno
stadio di calcio nell’intervallo, volenterosi e incuranti dei desideri di
(quasi) tutti, piano e tromba ne fanno ancora una, “Bye Bye Blackbird” e mentre
esco comincio a credere che i brani scelti avessero un senso. Fuori ci sono quelli che
la sanno più di tutti e parlano come se, mentre i tram sfilano incuranti. Nel
palazzo di fronte una targa ricorda Perez Prado, ma nessuno ci bada.
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