venerdì 17 luglio 2015

La ferocia, Lagioia e i negozi di dischi


Non sono un critico letterario. Non so nemmeno cosa sono a dire il vero, ma fondamentalmente mi sento un commesso di dischi, il mestiere che più ho amato e che più mi somiglia. Per cui se parlo dell’ultimo Premio Strega – La Ferocia di Nicola Lagioia – lo faccio esclusivamente in questa veste e perché mi sento direttamente chiamato in causa. Già, perché dietro la storia di Clara, rampolla di un palazzinaro barese in fissa con la cocaina e il sesso, che peraltro muore a pagina 3, si cela un pamphlet durissimo nei confronti del vinile e dei negozi di dischi. Si tratta di un lento ma inesorabile disvelamento, in principio magistralmente celato. Siamo all’inizio del libro: Alberto, il marito di Clara, ne aspetta il ritorno; si addormenta davanti alla TV, poi si sveglia e nel cuore della notte decide di ascoltare un disco: “Aveva raggiunto lo stereo. In meno di un minuto il jazz del Minton’s Playhouse invadeva il soggiorno smontando rabbia e infamia dal suo cuore … gli accenti spostati sui tasti del pianoforte, i cluster e i silenzi improvvisi rimescolavano i concetti di prima e dopo perché il mondo risuonasse un tutt’uno già redento in ogni scheggia”. Prosa degna di Murakami, ma perché non rivelare di quale disco si tratta? Una dimenticanza ho pensato, però bravo Lagioia, cita uno dei titoli fondamentali della storia del jazz, la seduta del maggio 1941 del chitarrista Charlie Christian, pietra miliare del bop e in particolare uno dei quattro brani in cui al pianoforte c’è nientemeno che Thelonious Monk. Proseguo speranzoso, ma quando entra in scena Silvio Reginato, un personaggio minore, il sospetto comincia a farsi strada: lo scopriamo a frugare tra gli scaffali della libreria “dove tiene i dischi e i cataloghi d’arte”. Non bastasse questa evidente stonatura – non si mettono dischi e cataloghi d’arte insieme per evidenti motivi – qualche riga dopo veniamo a sapere che vicino ai dischi c’è un raccoglitore azzurro con decine di scatti osceni. Ecco il primo attacco: non solo i dischi li sistemiamo dove capita, ma addirittura il loro posto è tra la pornografia. Nonostante tutto proseguo sereno fino al 1989 quando, secondo Lagioia, quello che veramente conta “sono i disegni riprodotti industrialmente sulle copertine di certi dischi, fumetti, libri e cataloghi d’arte da cinquemila lire l’uno”. Siamo al dileggio: “certi dischi”, anche qui non si fa menzione di titoli, solo banalmente copertine riprodotte industrialmente (e come dovevano farle, a mano?), anche qui vicino agli onnipresenti cataloghi d’arte, ma da cinquemila lire l’uno, cifra con cui all’epoca ci compravi sì e no un Giallo Mondadori. Comincia a montarmi una rabbia sorda fino a quando il fratello di Clara, Michele, un giornalistucolo fallito, mi apre definitivamente gli occhi. Lagioia lo descrive come un disadattato, uno che “ha cominciato ad andarsene in giro da solo per la città… Giardinetti. Sale Giochi. Parla con gente che non conosce. Fa amicizie estemporanee con persone che non vede più per giorni. Le reincontra davanti a un negozio di dischi”. L’affondo non lascia dubbi: emarginati e asociali si ritrovano davanti ai negozi di dischi (posso confermare che spesso entrano, ma non è questo il punto) e Michele è uno di loro; lo ribadisce con le parole di Clara, “certe volte ha in effetti lo sguardo un pochino allucinato” e lei “lo trova davanti al negozio di dischi insieme ai nuovi amici”. Il disprezzo trapela, sembra di sentir parlar mia madre. Non pensate sia finita: appena può Lagioia rincara la dose, del tutto gratuitamente: “Vento inpietoso, pioggia di foglie sui negozi di dischi”. Poi un giorno Clara, esasperata, esce di casa: “in centro fa quattro volte a piedi il giro dell’isolato…Per prendere tempo, entra in un negozio di dischi”. Ovvio che il mercato discografico sia in crisi: nei negozi, presi a schiaffi dal vento, si entra, quando si entra, solo per perdere tempo. E per farne perdere ai commessi (me li ricordo bene quelli che girellavano tra i banchi scegliendo con cura il titolo per essere certi che non fosse disponibile). Infine la rivelazione: Per Lagioia la musica è solo un sottofondo: “Sulle loro teste aleggiava una musichetta proveniente dal settore abbigliamento. Sospinta e disfatta dal vento poteva ricordare A Change Is Gonna Come”. La spocchia dello scrittore per cui un capolavoro come la canzone di Sam Cooke è solo una musichetta che si ascolta al supermercato (e qui si dovrebbe aprire una parentesi sul doloroso distacco dell’intellettuale dal popolo: Lagioia evidentemente non è mai entrato in un supermercato, altrimenti saprebbe che la musica è uguale in tutti i reparti) ci rivela che la ferocia del titolo è quella di un’Italia che ha ormai dimenticato l’importanza dei dischi, dei negozi e dei soprattutto dei loro commessi. In nome e per conto di tutti loro, ultimi baluardi contro l’abbruttimento e la povertà del mondo che ci circonda, vi chiedo di boicottare il libro di Lagioia. Con quei soldi, 19 euro e cinquanta, in un buon negozio di dischi, con un commesso competente e gentile, potreste scoprire autentici capolavori.

Un Amore Supremo

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