Del film se n’è parlato tanto, prima che uscisse ovviamente: Marina, ex attrice, ora imprenditrice di successo (mah, c’ha un negozio che fa da mangiare cose sane, un po’ poco dalle mie parti per definirsi imprenditrice), viene dar (sic!) popolo, dice le parolacce, c’ha il SUV, ma giapponese che non fa Suburra, ed è felicemente, lesbica senza tentennamenti. Federica è architetto, altrettanto di successo (che a noi le lesbiche fallite ci fanno tristezza), gira in car-sharing e ha un matrimonio alle spalle con uno squallidone, con cui ha fatto un figlio, appena risposato con una di venti-trent’anni più giovane; nevrotica e insicura (fondamentalmente solo un po’ stronza), nasconde la sua diversità (eh sì), anche perché forse non è del tutto convinta di aver fatto la scelta migliore. Questo, al netto delle parentesi, il soggetto. Poi c’è la sceneggiatura, dove la regista con Francesca Marciano e Ivan Cotroneo, ha deciso di non farsi mancare niente: il pianoforte in sottofondo, il mare d’inverno, il gatto che ronfa sul divano, “Till There Was You” nella versione di Peggy Lee che quella dei Beatles, si sa, costa troppo, C’è anche il collega architetto che non si è mai accorto che la sua capa non gliela dà perché è brutto (Antonio Zavatteri perdonami) e tira un sospiro di sollievo quando crede di scoprire il motivo. Poi ci sono le scene di letto, tante, ma non fraintendete, niente sesso (per quello c’è YouPorn, categoria Lesbiche, o se siete intellettuali “La Vita di Adele”). Meglio inquadrare in stile Casa Vianello, una bella cinepresa frontale, con la Buy che prova a leggere un libro e la Ferilli che cerca di parlare, rinuncia, spegne e comincia a scalciare. Così la prima parola che viene alla mente è Stereotipo, “modello convenzionale di atteggiamento o di discorso, opinione precostituita, generalizzata e semplicistica, che non si fonda cioè sulla valutazione personale dei singoli casi ma si ripete meccanicamente, su persone o avvenimenti e situazioni”. Voi direte, vabbè, che c’entra, il tema è delicato (e perché?), inevitabile forse cadere nella semplificazione. No, intendiamoci, qui lo stereotipo non è nella visione del mondo lesbico, qui il cliché è in ogni millimetro di pellicola, di dialogo, di costume, musica o scenografia. Tanto che l’unico momento di insensata e piacevole sorpresa ce lo dà un oculista (occhio, è senza apostrofo) con cui la confusa Federica crede di poter sostituire il vero amore: sono in casa e lui sta guardando in tv una partita del campionato olandese (l’Eredivisie, una noia mortale) cosa che nessun maschio etero sano di mente penserebbe di fare; di fronte a un tale scarto improvviso, i nostri sceneggiatori riequilibrano immediatamente. E alla povera Buy non resta che rientrare nei ranghi e dire che lei proprio il calcio non lo ha mai capito “22 uomini in mutande che corrono dietro a un pallone”. Già, forse che non c’è niente da capire?
venerdì 2 ottobre 2015
Due o tre cose che so di Io e Lei
Del film se n’è parlato tanto, prima che uscisse ovviamente: Marina, ex attrice, ora imprenditrice di successo (mah, c’ha un negozio che fa da mangiare cose sane, un po’ poco dalle mie parti per definirsi imprenditrice), viene dar (sic!) popolo, dice le parolacce, c’ha il SUV, ma giapponese che non fa Suburra, ed è felicemente, lesbica senza tentennamenti. Federica è architetto, altrettanto di successo (che a noi le lesbiche fallite ci fanno tristezza), gira in car-sharing e ha un matrimonio alle spalle con uno squallidone, con cui ha fatto un figlio, appena risposato con una di venti-trent’anni più giovane; nevrotica e insicura (fondamentalmente solo un po’ stronza), nasconde la sua diversità (eh sì), anche perché forse non è del tutto convinta di aver fatto la scelta migliore. Questo, al netto delle parentesi, il soggetto. Poi c’è la sceneggiatura, dove la regista con Francesca Marciano e Ivan Cotroneo, ha deciso di non farsi mancare niente: il pianoforte in sottofondo, il mare d’inverno, il gatto che ronfa sul divano, “Till There Was You” nella versione di Peggy Lee che quella dei Beatles, si sa, costa troppo, C’è anche il collega architetto che non si è mai accorto che la sua capa non gliela dà perché è brutto (Antonio Zavatteri perdonami) e tira un sospiro di sollievo quando crede di scoprire il motivo. Poi ci sono le scene di letto, tante, ma non fraintendete, niente sesso (per quello c’è YouPorn, categoria Lesbiche, o se siete intellettuali “La Vita di Adele”). Meglio inquadrare in stile Casa Vianello, una bella cinepresa frontale, con la Buy che prova a leggere un libro e la Ferilli che cerca di parlare, rinuncia, spegne e comincia a scalciare. Così la prima parola che viene alla mente è Stereotipo, “modello convenzionale di atteggiamento o di discorso, opinione precostituita, generalizzata e semplicistica, che non si fonda cioè sulla valutazione personale dei singoli casi ma si ripete meccanicamente, su persone o avvenimenti e situazioni”. Voi direte, vabbè, che c’entra, il tema è delicato (e perché?), inevitabile forse cadere nella semplificazione. No, intendiamoci, qui lo stereotipo non è nella visione del mondo lesbico, qui il cliché è in ogni millimetro di pellicola, di dialogo, di costume, musica o scenografia. Tanto che l’unico momento di insensata e piacevole sorpresa ce lo dà un oculista (occhio, è senza apostrofo) con cui la confusa Federica crede di poter sostituire il vero amore: sono in casa e lui sta guardando in tv una partita del campionato olandese (l’Eredivisie, una noia mortale) cosa che nessun maschio etero sano di mente penserebbe di fare; di fronte a un tale scarto improvviso, i nostri sceneggiatori riequilibrano immediatamente. E alla povera Buy non resta che rientrare nei ranghi e dire che lei proprio il calcio non lo ha mai capito “22 uomini in mutande che corrono dietro a un pallone”. Già, forse che non c’è niente da capire?
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