lunedì 9 gennaio 2012

Buon anno


Nella lunga pausa natalizia, i torpori post-prandiali e le consuete classifiche riepilogative, hanno finito per indurmi a confuse riflessioni sullo stato della musica. Prendendo spunto dal nuovo inserto della rivista francese Jazz Magazine (ventotto pagine tratte dai suoi archivi: nel primo numero articoli dagli anni tra il 1954 e il 1959) e dal bollino Choc (i dischi scelti del mese) ottenuto da sette ristampe su undici titoli in totale, avevo già elaborato una decina di righe in cui mi domandavo retoricamente se il jazz esista ancora o sia ormai tenuto in vita artificialmente. Certamente, pensavo, la 'favolosa' stagione degli anni '70, quando Miles Davis divideva il cartellone del Fillmore con Grateful Dead e nelle riviste rock non mancava mai lo spazio per artisti come John Coltrane, Archie Shepp o Sam Rivers, è ormai finita. Rimuginavo sul profondo mutamento subito dalla fruizione della musica – con conseguente riposizionamento della sua funzione sociale – quando l'occhio mi cade su un articolo di Gino Castaldo di Repubblica del 6 gennaio, "Il grande silenzio del rock. Questa volta è finita davvero". Si tratta di un interessante analisi che evidenzia due aspetti: da un lato il dominio del pop (e limitatamente agli States del rap) nelle classifiche di vendita, dall'altro l'incapacità del genere, che ha fin dalla sua nascita simboleggiato la protesta nei confronti dell'establishment, di fornire al movimento degli indignati di Occupy un'adeguata colonna sonora o almeno una canzone simbolo. Sicuramente "il popolo giovanile, incoraggiato da un sistema mediatico votato al consumismo più sfrenato, sembra tornato a un'era pre-rock in cui la musica era soprattutto intrattenimento"; ed è altrettanto vero che le nuove band di culto non sembrano "volersi fare carico di essere portavoce di alcunché, tantomeno di esprimere nelle canzoni un grande respiro generazionale", così come "le band storiche tipo U2, non sembrano più molto intenzionate a cavalcare la ricerca dei nuovi sentimenti planetari". Tutto vero: mi sembra però che questo fenomeno sia soprattutto il riflesso di un'incapacità molto più generale - del cinema, della letteratura, dell'arte, ma anche (molto più drammaticamente) del pensiero sociale e politico – di cogliere complessivamente gli aspetti di una realtà sempre più frammentata, discontinua e in fin dei conti privata. Così l'assenza del rock di cui parla Castaldo (e del jazz, aggiungo io) non è che l'inevitabile riverbero di una carenza di ideologie (nel senso migliore, se gliene è rimasto uno, del termine), capaci di restituire un senso a quanto accade nel mondo. La 'fine della storia' di cui scriveva Fukuyama nel 1992, avrebbe quindi lasciato solo macerie, tra le quali ci aggiriamo (proprio come Wall E, il protagonista dell'omonimo film d'animazione Pixar, che non a caso grazie al vecchio VHS di "Hello, Dolly!", aspira a non essere più solo) alla ricerca di un senso, forse impossibile da trovare. Proprio per questo non credo che si possa semplicemente accusare la musica di attraversare "un lungo e irritante letargo di coscienza". Mi sembra che la sfida che ci attende sia molto più complessa e, soprattutto, forse per la prima volta, imponga a ciascuno di noi uno sforzo consapevole, individuale e sociale al contempo. Se poi a farci compagnia debba essere un cofanetto di Nat King Cole, un live del 1967 di Miles Davis, un brano inedito dei Doors o l'ultimo acquarello di Bon Iver, decidiamolo pure liberamente e senza preoccuparcene troppo.

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