lunedì 31 dicembre 2012
Best (Wishes)
lunedì 24 dicembre 2012
Zappa for Christmas
Il 21 dicembre 1940 a Baltimora, da Francesco, un perito industriale originario di Partinico in provincia di Palermo e da Rose Marie, nasceva Frank Vincent Zappa, uno dei massimi geni musicali del XX secolo. Uno che per i suoi quattordici anni pensa bene di chiedere in regalo una telefonata; regalo accordato e quando compone il numero che ha trovato sull’elenco, a casa di Edgar Varèse risponde la moglie Louise; lui è a Bruxelles che scrive “Poème electronique”. Ma oramai il contatto c’è stato e il compositore francese rimarrà uno dei suoi maggiori riferimenti musicali; non l’unico, perché nella sua idea di musica “Absolutely free”, convivono musica colta e rhythm and blues, doo wop e jazz, rock’n’roll e cabaret. Un’altra cosa che non abbandonerà mai è il gusto per lo sberleffo: nel 1967 pubblica “We're Only In It For The Money”, ci siamo tutti dentro per soldi, risposta al Sgt Pepper dei Beatles e a tutti i luoghi comuni della cultura hippy e rock. Qualche anno dopo scrive “Tengo 'na minchia tanta“, brano che non lascia adito a dubbi e non solo sulle sue origini. Ma nella storia del rock ci entra anche per vie traverse: succede il 4 dicembre 1971 a Montreux quando verso la fine di un suo concerto uno spettatore spara un razzo segnaletico che dà alle fiamme il locale Casinò. I Deep Purple sono in un hotel sul lago e guardando l’incendio prendono ispirazione per scrivere Smoke on the Water, citandolo esplicitamente nel testo del brano. Io lo incontro da vicino il nove giugno 1988, al Palasport di Genova: avevamo appena finito di scaricare le casse dei suoi Tir e ciondolavamo nei dintorni del camerino quando me lo vedo passare davanti, ma non trovo il coraggio di dirgli nemmeno ciao. Poi arriva Fabio Treves, il musicista milanese che avrebbe suonato nell’intervallo del concerto e almeno con lui trovo la forza di scambiare due parole. Di quel concerto esiste un bootleg in cd con un'orrenda copertina, ma non l'ho mai sentito e non ne conosco la qualità di registrazione. Per questo imminente Natale mi piace ricordare una delle sue frasi fulminanti: “c’è più stupidità nel mondo che idrogeno nell’universo”. Grazie Frank, buon Natale ovunque tu sia.
martedì 11 dicembre 2012
Live is better
Se,
come afferma Marc Augé, i grandi concerti del rock sono gli ultimi
riti di massa della società contemporanea, non stupisce che se ne
siano infine accorti anche i discografici italiani, in genere non
proprio i più lesti a reagire al futuro che avanza (o al passato che
resiste). Così da qualche tempo è diventato d'uso, in occasione
dell'uscita di dvd e cd dal vivo, organizzare una tantum la
proiezione del medesimo concerto su grande schermo al cinema. Lo
hanno fatto Ligabue, Vasco Rossi e i Litfiba (in quel caso era un
documentario che lanciava nuovo disco e tournée); a ottobre è stata
la volta del leggendario concerto del 2007 dei Led Zeppelin alla 02
Arena di Londra in cui a John Paul Jones, Jimmy Page e Robert Plant
si era unito Jason Bonham, il figlio dello scomparso batterista John
Bonham. Dal cinema alla televisione come si sa il passo è breve e
quel concerto, approda lunedì 10 dicembre alle 23.45 su Italia 1
(non tutto, bisogna pur vendere il dvd). Sabato 15 è invece la volta
dei Rolling Stones (dopo che la scorsa settimana DeeJay TV aveva in
palinsesto il film “Charlie is my darling”, documentario sui
concerti di Dublino del 1965) con Sky che trasmetterà in diretta -
alle 3 di notte – dal Prudential Center di Newark, la seconda delle
due date previste in quella città dalla tournée del cinquantenario.
In questo caso per la visione occorre sborsare 12 euro, nemmeno
troppi se si considera che i prezzi dei biglietti rimasti vanno da
493 a 813 dollari (ma se ci si muoveva per tempo si trovava un'ultima
fila a soli 114,80). I soliti incontentabili obbietteranno che
l'atmosfera del live, l'ebbrezza della partecipazione al rito
collettivo, la speranza di trovare in uno sguardo incrociato per
caso, l'uomo o la donna della vostra vita, non sono replicabili né
sul grande, né sul piccolo schermo. Ma non è questo l'ambito dove
discettare delle differenze tra il sesso, l'erotismo e la
pornografia. E comunque il concerto in tv ha l'enorme vantaggio di
farvi vivere senza conoscere i meandri misteriosi del mondo della
prevendita. La scorsa settimana sono apparsi i tagliandi del prossimo
tour italiano di Bruce Springsteen; i devoti del Boss sanno bene a
quali prove si è costretti per ottenere l'ambito pezzo di carta:
attese snervanti di ore (se non di giorni), appelli e contrappelli
autogestiti per verificare che i partecipanti non abbiano abbandonato
la coda, polemiche con i venditori che, chissà perché, non svelano
il numero dei biglietti a loro disposizione. Il tutto condito da voci
incontrollate che confermano l'esistenza di blocchi di biglietti
all'altra parte della città, nella speranza che qualche ingenuo
abbandoni la posizione. Invece a un certo punto arriva una telefonata
attendibile che ti dice che il megastore di fronte ce l'ha davvero; e
allora si va a dare un'occhiata, tanto il prossimo controllo è tra
un'ora: la coda è snervante anche qui (con l'aggravante che si è
costretti a condividerla con tifosi dell'Inter e mamme che vogliono
portare le figlie a vedere la “Cinderella” di Rossini), talmente
da abbandonarla in tempo per tornare indietro, dove infine è
arrivato il tuo turno, ma proprio quando il botteghino chiude perché
i biglietti son finiti e chi te lo dice ha uno sguardo frettoloso e
sardonico che meriterebbe una reazione di ben altra violenza. Altra
corsa e infine riesci a mettere le mani su due biglietti per il
prato, il primo settore a scomparire (che on line non è nemmeno in
vendita); e sei già felice, anche se un po' invidioso di quei
ventenni che hai conosciuto nella nuova attesa e che hanno i soldi e
il tempo per seguire tutte le tappe del tour (roba che ai nostri
tempi toccava sfondare praticando l'autoriduzione per vederne uno).
Così finalmente hai in mano i due biglietti, del tutto simili a
quelli che il giorno del concerto rivedrai in mano ai bagarini, che
non si riesce proprio a capire come se li sono procurati. Ora non
resta che sederti ad aspettare il 3 giugno (magari dando un'occhiata
distratta agli Stones), ripassando tutti i dischi del Boss in attesa
dell'ennesimo, entusiasmante, orgiastico, rito collettivo. Nella
speranza che la profezia dei Maya sia davvero una cagata pazzesca.
Le
vicende e i fatti narrati in quest'articolo sono rigorosamente
accaduti nella giornata di lunedì 3 dicembre a Milano. Non a me
personalmente, ma all'amico Nicola Malatesta che mi ha comprato il
biglietto, che vedete qui riprodotto; a lui, benché juventino, va la
mia sempiterna riconoscenza e un'immensa gratitudine.
lunedì 3 dicembre 2012
La musica del caso
Al contrario di Lacan, che asseriva che niente succede per caso, a me sembra probabile che tutto avvenga proprio per caso e siamo noi che, ex post e pazientemente, ci incarichiamo di trovare legami, vincoli, nessi, significati, ad avvenimenti che altrimenti se ne starebbero tranquilli per fatti loro. A questo pensavo mentre in una giornata grigia e piovosa tornavo in macchina da Genova verso Milano; il lettore Mp3 offriva un'ampia varietà di scelta e dopo attenta valutazione, avevo optato per “Bastards”, l'album di remix di Bjork che raccoglie le canzoni di “Biophilia” - uscito nel 2011 – rivedute e corrette da alcuni tra i più interessanti manipolatori sonori della scena attuale. Operazione riuscita perché, per parlar chiaro, tanto “Biophilia” sembrava un disco stanco e inerte, quanto “Bastards” appare vitale e policromo: grazie soprattutto al siriano Omar Souleyman che rilegge “Crystalline” e “Thunderbolt”, a Matthew Herbert, a Hudson Mohawke. Il caso - ma in realtà a conferma di quanto appena detto, l'ordine alfabetico - ha voluto che nell'elenco musicale del lettore subito dopo Bjork ci fosse il nuovo disco di Bryan Ferry. E così dall’elettronica contemporanea, se non futuribile, mi sono ritrovato negli anni '20, nella ruggente età del jazz tanto cara a Scott Fitzgerald: sì perché l'ex Roxy Music ha pensato di rivisitare alcuni tra i suoi successi più famosi (“Avalon”, “Slave to love”, “The Bogus Man”), rischiando l'accusa di plagio nei confronti di Louis Armstrong, dei Wolverines di Bix Beiderbecke o addirittura dell’Original Dixieland Jazz Band. Per la cronaca l'esperimento, contro ogni aspettativa, può dichiarasi riuscito; ma al di là di questo il sincronico apparire di due dischi così diversi nel risultato finale, ma così simili nel progetto ideativo (il riarrangiamento o se preferite il remix di brani pre-esistenti), mi sembra la miglior testimonianza di una caos (occhio all'anagramma) creativo, magmatico e fecondo, tipico del post-contemporaneo globale in cui nostro malgrado ci ritroviamo a vivere. All'opposto di quella musica classica che invece prevede per statuto l'incessante e ripetuta riproposizione della stessa partitura. Solo un caso?
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