domenica 20 dicembre 2015

Mi andava di scriverlo così, retorico, nostalgico e tristanzuolo

Nessuno ci ha pensato, mi dice Guido Festinese tra gli scaffali del negozio; c’è un gruppo che compie cinquant’anni proprio come Disco Club, i Grateful Dead. Bisognerebbe scrivere un articolo, lo intitoliamo il Grateful Club, lo scriviamo a più mani, tutti insieme, io, tu, Flavio (Brighenti), Antonio (Vivaldi), Marco (Sideri).
L’articolo non è questo.
Mentre parliamo - e penso che la mia conoscenza dei Grateful si limita a qualche disco, alla copertina di 'Blues For Allah' (che mentre lo scrivo sento un brivido nella schiena, ma era solo il 1975, c'era la pubblicità su Ciao 2001, chi se lo sarebbe immaginato?) – arriva qualcuno, si inserisce nel discorso e tutto finisce lì (forse per ora) come centinaia di altre volte. Esco, facendomi stretto tra la piccola folla che imballa il negozio, clienti vecchi, anche giovani, vecchissimi, con figli, con mogli pazienti, oggi più del solito. Fuori, davanti alla vetrina speciale con i 45 giri del 1965 prestati da Sergio, stanno suonando: Filippo Gambetta, Edmondo Romano, il figlio di Raimondo di Pink Moon - il negozio che negli anni ’80 aveva quasi soppiantato Disco Club tra le nuove generazioni, ma poi non ce l’ha fatta - che inizia proprio cantando Nick Drake. Giancarlo non esce quasi dal banco, se non per farsi fotografare da Alberto Terrile (che almeno indaffarato com’è non parla di prog) con i clienti che hanno portato il loro primo ellepi acquistato proprio lì dentro.
Mentre scartabello tra i dischi, vorrei comprarne uno del 1965, ma li ho già tutti, chiedo a Paolo che non trova niente; Carletto, il pluriespulso, mi dà il primo e unico album di un gruppo australiano di garage-punk, ma non ho coraggio e lo lascio lì. Dal passato arriva anche Federico: è venuto perché sapeva di trovarmi: facevamo l’università insieme (male) e giocavamo di punta a fianco (sempre male, lui meglio però), non lo vedo da venticinque anni e sembra di sentire “Incontro” di Guccini. Che tra l’altro, il suo box integrale, è il più venduto per Natale e mi viene un po’ di tristezza, penso a un paese stanco, che non ha più voglia di conoscere nient’altro che il suo passato: ma forse è la situazione, con tutta quella gente intorno, a condizionarmi. Esco fuori a sentire ‘Please Please Please’ e guardo Stefano, il ‘commesso’ storico del negozio, abbiamo lavorato insieme 4 o 5 anni, anche se io stavo di là, dal jazz e dall’usato, e gli chiedo: ma tu ce l’hai il 45 giri? E lui ridendo mi dice che li ha tutti; e io lo sapevo già e questo mi rassicura. Appunto. 
U Megu mi fa vedere un disco della Neon che costerà 1000 euro; ha solo un graffio nella copertina, ma per il resto è perfetto. Si mette in fila per la foto, anche se è lì tutti i giorni.
Molti altri non li vedo, forse sono passati di mattina; altri andranno oggi, mentre scrivo o nel pomeriggio quando c’è Paolo Bonfanti che suona e Alessandro Sala che dipinge (e mi verrebbe voglia di tornare, ma non posso).

Mi vien da pensare che sembriamo figurine di un enorme album che Giancarlo ha amorosamente (e bruscamente come abbiamo constatato tutti prima o poi) collezionato in tutti questi anni; e come le ‘figu’ esistiamo solo grazie a lui, quando ci guarda, ci sfoglia, ci dedica un momento e poi ci rimette a posto. Vado via che ancora stanno suonando e saluto solo lui, un po’ frettolosamente, come sempre.


venerdì 2 ottobre 2015

Due o tre cose che so di Io e Lei


Del film se n’è parlato tanto, prima che uscisse ovviamente: Marina, ex attrice, ora imprenditrice di successo (mah, c’ha un negozio che fa da mangiare cose sane, un po’ poco dalle mie parti per definirsi imprenditrice), viene dar (sic!) popolo, dice le parolacce, c’ha il SUV, ma giapponese che non fa Suburra, ed è felicemente, lesbica senza tentennamenti. Federica è architetto, altrettanto di successo (che a noi le lesbiche fallite ci fanno tristezza), gira in car-sharing e ha un matrimonio alle spalle con uno squallidone, con cui ha fatto un figlio, appena risposato con una di venti-trent’anni più giovane; nevrotica e insicura (fondamentalmente solo un po’ stronza), nasconde la sua diversità (eh sì), anche perché forse non è del tutto convinta di aver fatto la scelta migliore. Questo, al netto delle parentesi, il soggetto. Poi c’è la sceneggiatura, dove la regista con Francesca Marciano e Ivan Cotroneo, ha deciso di non farsi mancare niente: il pianoforte in sottofondo, il mare d’inverno, il gatto che ronfa sul divano, “Till There Was You” nella versione di Peggy Lee che quella dei Beatles, si sa, costa troppo, C’è anche il collega architetto che non si è mai accorto che la sua capa non gliela dà perché è brutto (Antonio Zavatteri perdonami) e tira un sospiro di sollievo quando crede di scoprire il motivo. Poi ci sono le scene di letto, tante, ma non fraintendete, niente sesso (per quello c’è YouPorn, categoria Lesbiche, o se siete intellettuali “La Vita di Adele”). Meglio inquadrare in stile Casa Vianello, una bella cinepresa frontale, con la Buy che prova a leggere un libro e la Ferilli che cerca di parlare, rinuncia, spegne e comincia a scalciare. Così la prima parola che viene alla mente è Stereotipo, “modello convenzionale di atteggiamento o di discorso, opinione precostituita, generalizzata e semplicistica, che non si fonda cioè sulla valutazione personale dei singoli casi ma si ripete meccanicamente, su persone o avvenimenti e situazioni”. Voi direte, vabbè, che c’entra, il tema è delicato (e perché?), inevitabile forse cadere nella semplificazione. No, intendiamoci, qui lo stereotipo non è nella visione del mondo lesbico, qui il cliché è in ogni millimetro di pellicola, di dialogo, di costume, musica o scenografia. Tanto che l’unico momento di insensata e piacevole sorpresa ce lo dà un oculista (occhio, è senza apostrofo) con cui la confusa Federica crede di poter sostituire il vero amore: sono in casa e lui sta guardando in tv una partita del campionato olandese (l’Eredivisie, una noia mortale) cosa che nessun maschio etero sano di mente penserebbe di fare; di fronte a un tale scarto improvviso, i nostri sceneggiatori riequilibrano immediatamente. E alla povera Buy non resta che rientrare nei ranghi e dire che lei proprio il calcio non lo ha mai capito “22 uomini in mutande che corrono dietro a un pallone”. Già, forse che non c’è niente da capire? 

venerdì 17 luglio 2015

La ferocia, Lagioia e i negozi di dischi


Non sono un critico letterario. Non so nemmeno cosa sono a dire il vero, ma fondamentalmente mi sento un commesso di dischi, il mestiere che più ho amato e che più mi somiglia. Per cui se parlo dell’ultimo Premio Strega – La Ferocia di Nicola Lagioia – lo faccio esclusivamente in questa veste e perché mi sento direttamente chiamato in causa. Già, perché dietro la storia di Clara, rampolla di un palazzinaro barese in fissa con la cocaina e il sesso, che peraltro muore a pagina 3, si cela un pamphlet durissimo nei confronti del vinile e dei negozi di dischi. Si tratta di un lento ma inesorabile disvelamento, in principio magistralmente celato. Siamo all’inizio del libro: Alberto, il marito di Clara, ne aspetta il ritorno; si addormenta davanti alla TV, poi si sveglia e nel cuore della notte decide di ascoltare un disco: “Aveva raggiunto lo stereo. In meno di un minuto il jazz del Minton’s Playhouse invadeva il soggiorno smontando rabbia e infamia dal suo cuore … gli accenti spostati sui tasti del pianoforte, i cluster e i silenzi improvvisi rimescolavano i concetti di prima e dopo perché il mondo risuonasse un tutt’uno già redento in ogni scheggia”. Prosa degna di Murakami, ma perché non rivelare di quale disco si tratta? Una dimenticanza ho pensato, però bravo Lagioia, cita uno dei titoli fondamentali della storia del jazz, la seduta del maggio 1941 del chitarrista Charlie Christian, pietra miliare del bop e in particolare uno dei quattro brani in cui al pianoforte c’è nientemeno che Thelonious Monk. Proseguo speranzoso, ma quando entra in scena Silvio Reginato, un personaggio minore, il sospetto comincia a farsi strada: lo scopriamo a frugare tra gli scaffali della libreria “dove tiene i dischi e i cataloghi d’arte”. Non bastasse questa evidente stonatura – non si mettono dischi e cataloghi d’arte insieme per evidenti motivi – qualche riga dopo veniamo a sapere che vicino ai dischi c’è un raccoglitore azzurro con decine di scatti osceni. Ecco il primo attacco: non solo i dischi li sistemiamo dove capita, ma addirittura il loro posto è tra la pornografia. Nonostante tutto proseguo sereno fino al 1989 quando, secondo Lagioia, quello che veramente conta “sono i disegni riprodotti industrialmente sulle copertine di certi dischi, fumetti, libri e cataloghi d’arte da cinquemila lire l’uno”. Siamo al dileggio: “certi dischi”, anche qui non si fa menzione di titoli, solo banalmente copertine riprodotte industrialmente (e come dovevano farle, a mano?), anche qui vicino agli onnipresenti cataloghi d’arte, ma da cinquemila lire l’uno, cifra con cui all’epoca ci compravi sì e no un Giallo Mondadori. Comincia a montarmi una rabbia sorda fino a quando il fratello di Clara, Michele, un giornalistucolo fallito, mi apre definitivamente gli occhi. Lagioia lo descrive come un disadattato, uno che “ha cominciato ad andarsene in giro da solo per la città… Giardinetti. Sale Giochi. Parla con gente che non conosce. Fa amicizie estemporanee con persone che non vede più per giorni. Le reincontra davanti a un negozio di dischi”. L’affondo non lascia dubbi: emarginati e asociali si ritrovano davanti ai negozi di dischi (posso confermare che spesso entrano, ma non è questo il punto) e Michele è uno di loro; lo ribadisce con le parole di Clara, “certe volte ha in effetti lo sguardo un pochino allucinato” e lei “lo trova davanti al negozio di dischi insieme ai nuovi amici”. Il disprezzo trapela, sembra di sentir parlar mia madre. Non pensate sia finita: appena può Lagioia rincara la dose, del tutto gratuitamente: “Vento inpietoso, pioggia di foglie sui negozi di dischi”. Poi un giorno Clara, esasperata, esce di casa: “in centro fa quattro volte a piedi il giro dell’isolato…Per prendere tempo, entra in un negozio di dischi”. Ovvio che il mercato discografico sia in crisi: nei negozi, presi a schiaffi dal vento, si entra, quando si entra, solo per perdere tempo. E per farne perdere ai commessi (me li ricordo bene quelli che girellavano tra i banchi scegliendo con cura il titolo per essere certi che non fosse disponibile). Infine la rivelazione: Per Lagioia la musica è solo un sottofondo: “Sulle loro teste aleggiava una musichetta proveniente dal settore abbigliamento. Sospinta e disfatta dal vento poteva ricordare A Change Is Gonna Come”. La spocchia dello scrittore per cui un capolavoro come la canzone di Sam Cooke è solo una musichetta che si ascolta al supermercato (e qui si dovrebbe aprire una parentesi sul doloroso distacco dell’intellettuale dal popolo: Lagioia evidentemente non è mai entrato in un supermercato, altrimenti saprebbe che la musica è uguale in tutti i reparti) ci rivela che la ferocia del titolo è quella di un’Italia che ha ormai dimenticato l’importanza dei dischi, dei negozi e dei soprattutto dei loro commessi. In nome e per conto di tutti loro, ultimi baluardi contro l’abbruttimento e la povertà del mondo che ci circonda, vi chiedo di boicottare il libro di Lagioia. Con quei soldi, 19 euro e cinquanta, in un buon negozio di dischi, con un commesso competente e gentile, potreste scoprire autentici capolavori.

giovedì 11 giugno 2015

UmbriaJazz15


Ho visto cose: calzini in filo di scozia blu dentro Birkenstock marroni, ballerine col tacco, rosse e bucherellate, giacche di lino su Merrell gommose, cappelli di paglia e occhiali sgargianti, vestiti sbracciati in corpi opulenti in stivali estivi slabbrati, nasi rifatti, bocche deformi, rossetti sbagliati. E smartphone e tablet alzati verso il tetto pur di riprendere l’evento, un Presidente Regionale che parla di eccellenze e Renzo Arbore che cita Paolo Conte (è in cartellone, insieme ai Subsonica, ma c’è anche roba interessante, giuro), sì le donne non amano il jazz. Per dargli ragione, un’ingioiellata in nero fuori luogo e tempo massimo, parla al telefono, ribadendo stentorea dove si trova, incurante di Fresu e Rea che provano a suonare – “O que sera, que sera”, mai titolo fu più adatto – tra i convenuti che attendono solo il via libera per il buffet, tutta plastica riciclata o qualcosa del genere, ingozzatevi pure, il pianeta non ne risentirà. Poi ci si mettono anche loro, “Almeno tu nell’universo” ce la potevano risparmiare, ma non basta, in mezzo a “E se domani” appare incredulo il tema di “Parole Parole Parole” e sembra di essere davvero sul Titanic con la speranza che l’iceberg arrivi presto e porti anche un po’ di fresco. Ma io sono riconoscente a Umbria Jazz, e chi non lo è, nell’ottantasette ci ho visto Dexter Gordon e subito dopo Stan Getz con Kenny Barron, Rufus Reid e Victor Lewis, ancora mi sembra di esser lì, io e Marco Carbone che chissà che fine avrà fatto. Il concerto è finito, il brusio ha raggiunto i decibel di uno stadio di calcio nell’intervallo, volenterosi e incuranti dei desideri di (quasi) tutti, piano e tromba ne fanno ancora una, “Bye Bye Blackbird” e mentre esco comincio a credere che i brani scelti avessero un senso. Fuori ci sono quelli che la sanno più di tutti e parlano come se, mentre i tram sfilano incuranti. Nel palazzo di fronte una targa ricorda Perez Prado, ma nessuno ci bada.

mercoledì 27 maggio 2015

Perché odio le Rossana

Ho sempre odiato le caramelle Rossana. Ammetto che la confezione mi attirava, rossa ovviamente, quasi carminio; ma poi quella consistenza falsa, dura fuori, quasi insapore, e appiccicosa dentro, inutilmente melliflua e dolciastra, che appena ti accorgevi di averla rotta ti rendevi conto di aver fatto la sciocchezza più grande della giornata e senza possibilità di tornare indietro. Le ho sempre odiate anche perché una sera mio padre tornò da una cena con i colleghi di lavoro, decisamente bevuto. Era tardi, almeno nella mia percezione di allora, eravamo in cucina, lui seduto, storto, io e mia mamma in piedi. Mi aveva portato una caramella Rossana e a me già non piacevano, fatta l’esperienza una volta inutile riprovare; ma lui ci teneva e insisteva, con quell'ostinazione molesta tipica degli ebbri, a cui i bambini oppongono una testarda e inconsapevole resistenza. Così mio padre aveva pianto, perché io non mangiavo quella stramaledetta caramella Rossana. Era la prima volta (forse l’ultima) che lo vedevo piangere e, come si evince, non l’ho mai dimenticato.
Ora ho un nuovo motivo per odiarle. Nell’ultimo, deprecabile, film di Paolo Sorrentino, Youth o Giovinezza, come vi pare, Michael Caine (che interpreta un direttore d’orchestra in pensione) indugia due o tre volte con la cartina dell’odiosa caramella, stropicciandola ripetutamente tra le dita, quasi a creare un ritmo misterioso, profondo, intimo, probabilmente una nuova “Simple Song” da dedicare al ricordo della moglie. E io (“che non so un tubo di concerti”) ho cercato di immaginare, di capire, di dare un significato, manco quella cartina fosse una “Rosebud” (“Rosabella” nella versione italiana di “Citizen Kane”; vedi, mi dicevo, c’è anche l’assonanza), uno scrigno di promesse, un whodunit di lubitschiana memoria.

Ma poi ieri, alle 11.44, la rivelazione: un comunicato mi ricorda che anche in Italia è possibile utilizzare il product placement e Sorrentino, legittimamente, l’ha fatto: ha impiegato un “brand italiano in una produzione cinematografica di respiro internazionale, con un inserimento pacato, ma che, armonizzandosi con gli elementi caratterizzanti del personaggio, rimane impresso. In una scena, che è anche parte del teaser internazionale del film, la carta delle note caramelle Rossana, un prodotto senza tempo, fra i più noti di casa Perugina, apprezzato da intere generazioni, è accarezzata e ‘suonata’ dalle mani del protagonista, che, sulla soglia degli ottant’anni, assapora ogni dettaglio del tempo che gli rimane e che ha vissuto”.
Voilà, impeccabile. E illuminante. Perché proprio grazie a Rossana, il film di Sorrentino si rivela qual è. Una colossale e impeccabile costruzione in cui ogni iperestetica inquadratura ha il solo scopo di ingenerare aspettative clamorosamente deluse un istante dopo; credi ti stia per spiegare il senso della vita e invece se ne esce con  “le persone o sono belle o sono brutte, in mezzo ci sono soltanto i carini”.
Grazie Sorrentino, per avermi rievocato uno dei nemici di tutta la mia vita, la stupida, insulsa, disgustosa caramella Rossana. E grazie, soprattutto, per avermi ricordato che bisogna sempre odiare con l’entusiasmo della gioventù; perché non si sbaglia mai.






lunedì 2 marzo 2015

(P)RE-CENSIONI Perché ascoltare un disco se si può parlarne comunque?

VAN MORRISON
DUETS: RE-WORKING THE CATALOGUE

Sedici canzoni dal repertorio di Van The Man, scelte evitando volutamente quelle più famose, ricreate ognuna con un diverso e stimato collega per altrettanti imperdibili duetti. Questo il riassunto di un ipotetico comunicato ufficiale. La realtà è che dischi così arrivano a fine carriera e hanno il pregio di impegnare relativamente l’artista: dal punto di vista creativo (si usano brani già editi); da quello produttivo (non penserete che i duetti vengano registrati de visu? Ognuno sta a casa, incide con i suoi tempi e i suoi modi, poi si sistema tutto); da quello fisico (la voce comincia a calare e l’aiuto rispettoso è ben accetto). E finiscono per assomigliare all’orologio d’oro regalato al pensionando con encomio solenne; o a una pietra tombale. Anche questo del burbero artista di Belfast non sfugge alla regola: si convoca un po’ di nomi altisonanti - giovani, anziani, donne, uomini, figli, vivi, morti (il bacino dev’essere il più ampio possibile) e il gioco è fatto: come ci ha detto nel suo ultimo disco, Morrison non ha un piano B, sa solo cantare e probabilmente continuerà a farlo fino a che avrà voce e ispirazione. E magari anche dopo.

recensione scritta il 28 febbraio – disco in uscita il 24 marzo

 Tracklist:
“Some Peace of Mind” con Bobby Womack (da Hymns to the Silence, 1991)
“Lord, If I Ever Needed Someone” con Mavis Staples (da His Band and the Street Choir, 1970)
“Higher Than The World” con George Benson (da Inarticulate Speech of the Heart, 1983)
“Wild Honey” con Joss Stone (da Common One, 1980)
“Whatever Happened to P.J. Proby” con P.J. Proby (da Down the Road, 2002)
“Carrying a Torch” con Clare Teal (da Hymns to the Silence, 1991)
“The Eternal Kansas City” con Gregory Porter (da A Period of Transition, 1977)
“Streets Of Arklow” con Mick Hucknall (da Veedon Fleece, 1974)
“These Are The Days” con Natalie Cole (da Avalon Sunset, 1989)
“Get On With The Show” con Georgie Fame (da What’s Wrong with This Picture, 2003)
“Rough God Goes Riding” con Shana Morrison (da The Healing Game, 1997)
“Fire in the Belly” con Steve Winwood (da The Healing Game, 1997)
“Born To Sing” con Chris Farlowe (da No Plan B, 2012)
Irish Heartbeat” con Mark Knopfler (da Irish Heartbeat, 1988)
“Real Real Gone” con Michael Bublé (da Enlightenment, 1990)
“How Can A Poor Boy” con Taj Mahal (da Keep It Simple, 2008)

Un Amore Supremo

In occasione dell'uscita in edicola di A Love Supreme, primo titolo della collezione I Capolavori del Jazz in Vinile, sono andato a ria...