Una
sera di qualche anno fa, dopo uno spettacolo teatrale, mi sono ritrovato a
parlare al tavolino di un bar con l’antropologo Marco Aime. Lui, torinese, a
quell’epoca insegnava a Genova e mi confessava stupito di non aver mai
conosciuto un’università al mondo in cui si insegnassero così tante materie
relative alla città e alla regione di appartenenza. Nello specifico, Genova e
la Liguria. La cosa, dopo qualche commento al retrogusto di Rossese, finì lì,
persa tra i complimenti allo spettacolo – tratto da un testo dello stesso Aime –
e le chiacchiere stanche delle serate che stanno per finire.
Qualche
tempo dopo mi sono trasferito a Milano e ho cominciato a guardare alla città in
cui sono nato con un occhio inevitabilmente diverso; soprattutto ho cominciato
a guardare ai miei concittadini con un occhio diverso. Mi spiego: nel mio
profilo Facebook la maggior parte degli ‘amici’ sono genovesi. Diciamo il 50%.
Il resto è sparpagliato in giro per l’Italia, più qualche punto percentuale tra
Europa e Stati Uniti. All’inizio non me ne sono reso conto: girellavo sulla
timeline soffermandomi a leggere i post più interessanti, più curiosi, come si
fa di solito; mettevo mi piace, commentavo o ignoravo secondo la situazione e
l’umore. E rivedevo volentieri le immagini della scogliera di Pontetto o del
monumento di Quarto, del Porto Antico rosseggiante al tramonto, del cielo
incredibilmente azzurro dietro la cattedrale di San Lorenzo, delle facce nei
vicoli introvabili altrove, dei tetti di ardesia e delle crêuze di mattoni
rossi muschiati di verde. Non dico che fossi colpito da nostalgia, ma un certo
qual sentimento di orgogliosa appartenenza si faceva largo dentro di me, che
pure ho passioni contrastanti nei confronti di una città di cui sarebbe troppo
facile e lungo elencare i demeriti e le occasioni perdute. Improvvisamente un
giorno mi è tornata alla mente la conversazione con Aime e un sospetto
strisciante ha cominciato a tormentarmi: ho iniziato, dapprima scettico e
titubante, poi sempre più convinto, a controllare i profili dei miei amici non genovesi:
milanesi, romani, napoletani, veneziani, parigini, londinesi, newyorchesi.
Nessuno tra loro postava foto della propria città, perlomeno non con l’inquietante
frequenza dei loro omologhi liguri. Nessuna Piazza Navona o Colosseo al
tramonto, niente guglie del Duomo di Milano sullo sfondo azzurro (sì, anche a
Milano il cielo è azzurro), niente Ponte dei Sospiri o Maschio Angioino in un
selfie; per non parlare dei residenti all’estero, autoctoni o emigrati: niente
Torre Eiffel e Notre Dame, zero Big Ben e Westminster, nessuna Statua della
Libertà, Cristo Redentor, Sagrada Familia; né spiagge di San Diego fotografate con
surfisti in tubi di 5-6 metri (come accade invece e in dimensioni notevolmente ridotte,
per Bogliasco e Levanto).
La
conferma al sospetto era letteralmente sotto i miei occhi: i genovesi, i
liguri, anche i più insospettabili, sono i soli a ribadire continuamente, con un
autocompiacimento che sconfina nella presunzione, l’unicità e lo splendore
della propria città/regione (salvo criticarla ferocemente in conversazioni
private, sognando di abbandonarla per cercare fortuna altrove). Prima che il
50% delle persone che sta leggendo queste righe cominci a insultarmi, preciso
che sono convinto che Genova sia una delle città più belle d’Italia; ma non sto
parlando di questo. Quello che m’interessa capire è perché si senta l’esigenza
di affermare continuamente e inesorabilmente questa bellezza e quale sia il
rapporto con il proverbiale senso di ospitalità ligure e con lo stato di
sostanziale coma in cui versa la città da anni. Magari non c’è alcun rapporto,
magari a postare le immagini non sono i commercianti che ti accolgono con
ineguagliabile savoir faire, tantomeno la classe politica che è riuscita a far
eleggere presidente della Regione Giovanni Toti da Viareggio o la classe
imprenditoriale cha ha lasciato all’irpino Enrico Preziosi o al romano Massimo
Ferrero la proprietà di due delle più gloriose squadre di calcio italiane.
Però…(continua)
PS
L’immagine che accompagna questo post è un collage approssimativo di foto
tratte da profili social di amici cari che spero vorranno prendere il mio furto
come una dimostrazione di autentico affetto. L’insegna di Disco Club non c’entra
niente, ma volevo metterla perché è uno dei motivi che mi riportano sempre in
città.
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