Che un film come Whiplash abbia ricevuto cinque nomination agli imminenti Oscar può essere letto in due soli modi: come l’imbarbarimento finale del cinema contemporaneo o come il rincoglionimento definitivo di chi sta scrivendo queste righe. Andrew Neyman ha diciannove anni e un solo obiettivo: diventare come Buddy Rich. (Per chi non lo sapesse il suddetto Rich è un batterista jazz molto famoso negli anni ’50, dotato di straordinaria tecnica e di una potenza e velocità senza eguali - che sfogava in memorabili ‘battle’ con i colleghi dell’epoca - un maestro per tutta una generazione di spaccatamburi senz’anima). Per riuscire nell’impresa è disposto a tutto, a sacrificare gli affetti, gli amici, la prima timida ragazza che chissà cos’ha trovato in lui; e soprattutto è disposto a farsi maltrattare, schiaffeggiare, umiliare da Fletcher, il direttore di una scuola che assomiglia più a Parris Island di Full Metal Jacket (c’è anche il trombonista Palla di Lardo, state tranquilli) che alla High School of Performing Arts di Saranno Famosi.
Infatti non ci sono donne (anche la mamma di Andrew è scomparsa appena ha capito che suo marito altro non era che uno scrittore fallito: una delle mille amabili frasi con cui Fletcher motiva il ragazzo); e quando a suonare il sassofono è una ragazza, è solo per cinque secondi, abbastanza per capire che il jazz non è roba da femmine. Invece ci sono l’omosessualità, latente e dichiarata, almeno a livello d’insulto e il sangue, a fiotti, in ralenti e grandangolo, sui tamburi e sui piatti (e anche sui volti), che sgorga dalle mani piagate per lo sforzo e la fatica. Insomma la musica è sofferenza (e può essere), ma soprattutto è una battaglia in cui il nemico è ovunque, in chi ti sta a fianco (i batteristi sostituti che a turno diventano titolari per umiliare l’altro), in quelli che suonano con te (mai degnati di uno sguardo in due ore di film), nel tuo maestro che è non esiterebbe a ucciderti se servisse a farti suonare meglio e che forse sei tu che devi uccidere per liberare il genio che nascondi in fondo a te (ma molto in fondo).
Tutto questo annegato in un contesto musicale pressoché nullo, tanto pleonastico e scolastico è il jazz che si ascolta: anche stendendo un velo sul momento in cui Fletcher in un localino azzarda un pezzo al pianoforte, resta la musica dell’orchestrina, un paio di brani – tra cui ‘Caravan’ in una versione incurante della magia esotica della scrittura ellingtoniana – che forse piacerebbero a quel Wynton Marsalis, spesso evocato come la realizzazione finale di ogni buon musicista.
Io, che per prepararmi mi ero anche rivisto L’uomo dal braccio d’oro (dove Sinatra la batteria imparava a suonarla in carcere ed era il suo modo di provare a star meglio nella vita), con le note di Shorty Rogers e le bacchette di Shelly Manne (bianco come Rich, ma che differenza, fidatevi anche se non siete dei jazzofili incalliti), mi sono ritrovato a odiare tutti, il maestro, l’allievo, gli orchestrali, la musica: forse lo scopo del film è proprio questo, ridurre anche lo spettatore nella condizione hobbesiana di homo homini lupus. E forse la realtà è davvero questa e io, che mi sono rincoglionito per davvero, non me ne sono nemmeno accorto.
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