Da sei anni vivo a Milano e due domande
implacabilmente affiorano a ogni nuovo incontro: alla prima - “non ti manca il
mare?” - ho imparato a rispondere no, lasciando cadere velocemente la
conversazione. La seconda, quella con cui l’interlocutore cerca di empatizzare,
“genoano o sampdoriano?”, ne porta con sé subito un’altra: “e come mai sei
interista?” Rispondo con questo scritto, cui da oggi rimanderò con mio grande
sollievo.
Sono nato a Genova, quartiere di Marassi, a 350 metri dallo stadio.
Era bello lo stadio vecchio; ora non c’è più, l’hanno buttato giù per Italia
’90 e l’hanno ricostruito nello stesso punto: un po’ più brutto, col prato che
non drena, togliendo i parterre, dove ogni partita c’era uno che inseguiva il
guardialinee ricoprendolo, del tutto gratuitamente, di sputazza e insulti. Lo
so perché da quando ho memoria – l’anno in questione è il 1970 - ogni santa
domenica della mia infanzia l’ho trascorsa allo stadio: con mio papà e, se lui
non c’era, con qualche vicino di casa. Un giorno col fruttivendolo del piano di
sopra sono andato a vedere Italia Lussemburgo, 5 a 0 per noi, quattro gol di
Gigi Riva (ma qui siamo già nel 1973) e ci siamo fermati a salutare Maurizio
Barendson, che lui era una gran faccia tosta
- il fruttivendolo, non Barendson - e io invece mi vergognavo come un
ladro. E quando non c’era nessuno disponibile, andavo da solo, chiedendo a un
signore qualunque, trovato lì fuori, di fingere di essere il mio papà; tanto
bastava essere piccoli e accompagnati per entrare gratis. Quando dico ‘ogni
santa domenica’ voglio proprio dire tutte le domeniche: a Genova ci sono due
squadre e ogni settimana si andava a vedere una partita, qualunque squadra
giocasse e qualunque squadra si tifasse. Mio papà era genoano e preferibilmente
mi portava a vedere il Genoa, il fruttivendolo era
sampdoriano e così santificavo anche i blucerchiati, quell’anno peraltro in
serie A con Lippi, Lodetti, Suarez e Spadetto (giocherà 175 minuti in tutto, ma
tenete a mente questo nome, ora non vi dice niente, ma ritornerà più avanti). A
scuola avevo compagni genoani e compagni sampdoriani che ferocemente e
continuamente ribadivano la loro appartenenza, con precoci discussioni da bar,
a volte ingenue, a volte crudeli; io, che per indole sono sempre stato poco
incline alla disputa, prendevo tempo, facevo il simpatico, ora con gli uni, ora
con gli altri. Ma non poteva durare a lungo; l’autunno volgeva al termine e il
campionato stentava a trovare un padrone ed ecco arrivare in soccorso l’album
Panini. Ho 8 anni e per la prima volta sono autorizzato a comprarlo insieme a qualche
pacchetto di figurine ogni settimana. Il resto lo faranno gli scambi e le
doppie del figlio del macellaio, che ne compra a bizzeffe. Per la prima volta
vedo da vicino i volti dei giocatori, le loro divise, i titolari, le riserve,
imparo a memoria i nomi degli stadi e dei presidenti. L’anno precedente il
Cagliari di Gigi Riva (stadio sant’Elia, presidente Efisio Corrias, medico
sociale dott. Augusto Frongia) ha vinto il campionato: lo scudetto si staglia
bene sulla maglietta bianca, bordata di rossoblù. Gli altri rossoblù, quelli locali,
hanno diritto allo scudetto, ma solo in forma di figurina sbriluccicante perché
sono finiti in serie C. La Sampdoria invece, come detto, è in serie A. Ma di
tenere per loro non se ne parla, non posso dare un simile dispiacere a papà. Così
mentre appiccico le figu con la colla (c’erano anche le celline - triangolini
biadesivi da apporre sul retro – ma non conosco nessuno che sia mai
riuscito a utilizzarle) e imparo le formazioni a memoria, cerco di immaginare
quale potrebbe essere la squadra dietro la quale difendermi o nascondermi, con
la quale non prendere parte al rituale degli schieramenti che fatico a
comprendere. C’è la Juve che ha già vinto una valanga di scudetti ma coincide
con la FIAT e gli Agnelli: non fa per me, ho imparato a diffidare dei padroni
sin dalla tenera età. C’è il Milan, ma l’accostamento cromatico rosso e nero mi
ha sempre infastidito. La Roma ha delle bellissime Lacoste arancioni, ma quella
città è troppo lontana. E poi ci sono i nerazzurri, che nel frattempo hanno
cambiato allenatore e hanno cominciato a vincere: ma non credo sia questa la discriminante.
Temo che il motivo sia molto più banale: in porta c’è Vieri, in difesa c’è
Facchetti. Io non riesco ancora a pronunciare la effe e così lo storpio in
Sacchetti. La cosa incontra il gradimento degli adulti – la comicità di quel
tempo era piuttosto semplice – e mio papà me lo fa ripetere quando capita, agli
amici al bar, in visita parenti la domenica pomeriggio. E io sono felice di
vederli sorridere (con la medesima soddisfazione di essere al di fuori degli
sfottò nel caso si parli di una delle due squadre cittadine) e il mio papà con
loro. Così comincio ad affezionarmi e in primavera divento definitivamente interista.
Quell’anno vinciamo il
campionato, convincendomi di aver fatto la scelta migliore.
Avrò modo di
ricredermi, ma ormai è tardi.
Il ricordo più nitido di
quella stagione è legato comunque al Genoa: il 13 giugno 1971 – la serie
A è già finita da qualche settimana – è una bella domenica di sole. Sono allo
stadio con papà, settore distinti. I rossoblù stanno per festeggiare il ritorno
nella serie cadetta (battono il Rimini per 2 a 1, gol di Speggiorin e Turone); prima
del fischio d’inizio un’enorme B di polistirolo sale verso il cielo azzurro sospinta
da tanti palloncini colorati. E io me la ricordo come fosse oggi e forse per
questo penso sempre al calcio come ad uno spettacolo del quale fatico a
comprendere i coinvolgimenti emotivi esasperati. Quell’anno finisco l’album per
la prima e unica volta nella mia vita. Ironicamente la figurina che mi fa
diventare pazzo è quella del sampdoriano Dino Spadetto (dal ’66 al ’69
all’Inter, 5 presenze due gol) me la regala il solito figlio del macellaio, chissà
che fine avrà fatto (il figlio del macellaio; e pure Spadetto).
Ancor più ironicamente qualche anno dopo l’amore mi porta a
Milano dove la mia appartenenza non mi mette più al riparo dalle discussioni
che tanto rifuggo; ma ormai devo stare al gioco, come si sa le squadre non si
cambiano.
E sì, il mare mi manca.
E sì, il mare mi manca.