lunedì 21 marzo 2011

Talkin' World War III Blues


Il 18 marzo scorso, il giorno dopo l’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell'Onu della risoluzione che ha autorizzato l'imposizione della no-fly zone sulla Libia “con tutti i mezzi a disposizione”, il quotidiano francese Libération è uscito con una doppia copertina: in prima pagina la foto di Gheddafi e il titolo “La guerre”; in ultima pagina, una prima rovesciata, un’immagine di un elicottero sopra Fukushima e la scritta “La centrale infernale”. Un tragico, ma efficace riassunto di una settimana alla quale è difficile dare una colonna sonora, in cui verrebbe voglia di scrivere ‘chiuso per lutto’, limitarsi a copiare “Alle fronde dei salici "di Salvatore Quasimodo o rannicchiarsi sul divano ad ascoltare uno di quei dischi che si tirano fuori nelle occasioni che contano. E così ho fatto, pescando dal mucchio “The Freewheelin' Bob Dylan”, guidato nella scelta da un inconscio che quasi sempre si rivela molto più lungimirante dell’io che lo contiene. Ho guardato la foto di copertina, dedicando un ultimo pensiero a Suze Rotolo, l’allora fidanzata di Dylan ivi ritratta e scomparsa il 24 febbraio di quest’anno, mentre in sottofondo partivano le (arci)note di "Blowin' in the Wind". Dopo poco più di sei minuti, all’inizio del terzo brano, “Masters of War”, mi alzo ed estraggo dalla libreria un vecchissimo libro della Newton Compton, pagato all’epoca milleduecento lire, “Blues, ballate e canzoni”, i testi dei primi undici album di Robert Zimmerman da Duluth: “e spero che moriate, e che la vostra morte venga presto, seguirò la vostra bara, un pallido pomeriggio, e guarderò mentre vi calano, giù nella fossa, e starò sulla vostra tomba, finché non sarò sicuro che siete morti”. Ancora due canzoni che quasi non ascolto, ho ancora nelle orecchie l’invettiva contro i padroni della guerra e inizia “A Hard Rain's A-Gonna Fall”: “e cosa hai sentito, figlio dagli occhi azzurri, cosa hai sentito, dolce mio figlio, ho sentito il fragore di un tuono, e il suo rombo era un avvertimento, e ho sentito il fragore di un'onda, che potrebbe sommergere tutto il mondo, ho sentito cento tamburini, e le loro mani erano in fiamme”. Mi risveglia il tac della puntina sul solco finale, insistito, ripetuto, sempre uguale; mi alzo, sollevo con delicatezza il braccio del giradischi, mi siedo di nuovo resto lì, senza pensare a nulla.

lunedì 14 marzo 2011

Anema e core


Il mio amico Salvatore telefona tre - quattro volte l'anno: rispondo e lui, dall'altra parte, comincia a suonare il sax tenore, un Selmer Mark IV che tiene in negozio per esercitarsi; oppure mette un brano sul vecchio giradischi con cui ama riascoltare i suoi maestri. Poi scoppia a ridere e dice: "Danilo, come s'intitola questo pezzo? Ciao, sono Salvatore, come stai?". Dopo le abituali chiacchiere di riscaldamento arriva il momento del suo argomento preferito o, per meglio dire, del suo sospirato miraggio: invitare Sonny Rollins a Genova per insignirlo di una laurea ad honorem dall'Università o di un riconoscimento dal Comune o una qualunque cosa ufficiale che lo convinca ad attraversare l'Atlantico. Così mi racconta del suo ultimo incontro con il Magnifico Rettore che gli ha assicurato, pur non conoscendo il personaggio in questione, che farà tutto il possibile; con l'assistente del Sindaco, che gli ha garantito, pur non conoscendo il personaggio in questione, che vedrà di convincere il nostro primo cittadino; con un'importante esponente di Assindustria che si è detto certo, pur non conoscendo il personaggio in questione, che il presidente si adopererà sicuramente per trovare un degno sponsor per l'evento. E tutti - sembra di sentirli in coro - aggiungono che "proprio quest'anno"... "non ci sono nemmeno i soldi per gli asili"... "la crisi picchia duro"... e tutto un campionario di frasi di circostanza su cui si infrange la sua indomabile perseveranza. Questo succede ormai da più di dieci anni. Lui, nel frattempo, ha tallonato Rollins, in tutti i suoi concerti, in Italia e in Francia, presentandosi con la raccomandazione di un amico comune, Emilio Lyons da Boston, "the doctor", il più importante aggiustatore di sassofoni del mondo, con cui Salvatore ha intessuto negli anni un rapporto affettuoso, quasi filiale. Ormai anche il manager lo conosce, ci ha parlato spesso e lo ha quasi convinto; anche Rollins sembra possibilista; mancano solo i soldi, nemmeno tanti in fondo, un paio di biglietti aerei e un po' di buona volontà. Ma niente e il suo sogno resta ben lontano dal realizzarsi. Martedì scorso mi ha telefonato; le note di "Anema e core" hanno preceduto la sua voce, sempre allegra, che chiedeva come stavo; ci siamo salutati con la promessa di rivederci, prima o poi. Su Rollins nemmeno una parola. Pochi giorni dopo ricevo la newsletter mensile di Down Beat, la più importante rivista di jazz statunitense. Il titolo d'apertura è: "Sonny Rollins Awarded National Medal Of Arts". Nella foto un ottantenne 'Saxophone Colossus' sorride, capelli e barba grigi, elegantissimo, indossa una splendida giacca rossa, mentre il presidente Barack Obama gli consegna la medaglia. Ripenso a Salvatore, alle decine di volte in cui ha provato a spiegare chi sia Sonny Rollins e perché per Genova sarebbe stata un'occasione importante tributare un riconoscimento a un musicista che ha fatto la storia del jazz e della cultura del Novecento. So che sarà contento per Sonny, che brinderà ascoltando un suo disco (io sarei indeciso tra "Freedom suite" o il "Volume 1" della Blue Note), la prossima estate andrà a salutarlo in uno dei pochi concerti che terrà in Europa e si complimenterà per la medaglia; ma, quasi sicuramente, non avrà il coraggio di parlare ancora del suo progetto. Così, giorno dopo giorno, spegnendo entusiasmi, desideri, sogni e anche rendendo impossibile il lavoro a realtà concrete, fattive, positive, che rendono migliore la nostra vita, così, giorno dopo giorno, muore la cultura in Italia. (Scritto nella settimana in cui sono 'scomparsi' altri ventisette milioni dal già esangue Fondo Unico per lo Spettacolo, è stata finalmente varata l'ineludibile Grande riforma sulla Giustizia, il CdA Rai ha approvato l'arrivo di due nuove "stelle", entrambi dipendenti berlusconiani: Giuliano Ferrara, con la sua trasmissione "Qui Radio Londra", un milione e mezzo all'anno per due anni con l'opzione per il terzo; e Vittorio Sgarbi che da aprile avrà condurrà "Il bene e il male", compenso sconosciuto).

lunedì 7 marzo 2011

The perfect beat



Qualche giorno fa mi aggiravo tra le bancarelle di libri, come succede quando si ha tempo da perdere, in attesa che si faccia un'ora dignitosa per presentarsi a un colloquio di lavoro o, se si è ancora giovani, al primo appuntamento con una ragazza conosciuta su Facebook. Insomma era uno di quei momenti in cui se la vita fosse un romanzo, ecco quello sarebbe il momento cruciale, l’istante spettacolare in cui tutto finalmente sta per cambiare. Invece, trattandosi di vita vissuta, ogni cosa procede noiosamente come sempre e, in genere, anche l’ammucchiata di libri non provoca nessun sussulto. Questa volta, mi capita tra le mani "Slumberland" di Paul Beatty, pubblicato da Fazi nel 2010. Mi attira la foto di un ragazzo nero in copertina e il dialogo riportato sotto il titolo: "Allora? Cos'è un musicista jazz senza una donna bianca? Un senzatetto". Non proprio una battuta memorabile, ma la parola jazz è sufficiente per farmi aprire la prima pagina. Qui ci trovo Josephine Baker, la Montblanc, Langston Hughes e tanto basta, insieme ai cinque euro del prezzo, a convincermi all'acquisto. A casa il libro finisce dimenticato nella pila di quelli da leggere per qualche mese, fino all'altro giorno, quando salta fuori reclamando attenzione. Inizio a sfogliarlo, senza molta convinzione: un disc-jockey nero, dotato di una memoria fonografica perfetta, arriva a Berlino, nel 1989, alla ricerca di Charles Stone, detto lo Schwa, uno dei tanti geni sconosciuti e/o dimenticati del jazz. DJ Darky, l'io narrante, lo cerca perché lui è l'unico in grado di suonare il ‘beat’ perfetto, un ritmo assoluto di 2 minuti e 47 secondi composti accumulando tutti i suoni incontrati nella sua vita (che il brano abbia una sua efficacia lo dimostra il fatto che anche Blixa Bargeld, che abita al piano sotto del nostro protagonista, dimostri rispetto all’ascolto). In attesa dell'incontro, per guadagnarsi da vivere, lavora allo Slumberland, un bar che è "uno zoo degli accoppiamenti interrazziali". Forse lavoro è una parola grossa, perché chi non vorrebbe fare il ‘jukebox - sommelier’, cioè riempire un vecchio Wurlitzer di 45 giri scelti con maniacale attenzione, in modo che qualunque sia la casuale successione di ascolti non possa che risultarne una colonna sonora impeccabile? Ovviamente, in qualche serata speciale Darky sale in consolle, mettendo insieme Shuggie Otis e Bar-Kays, Slave e Gil Scott-Heron, “Sugar man” di Sixto Rodriguez con “Lizard” dei King Crimson (!). E chissà che a Kanye West l’idea di campionare “21st century schizoid man” in “My Beautiful Dark Twisted Fantasy”, non sia proprio venuta in mente leggendo queste righe. Nell’attesa di conoscere la risposta, provate a risolvere la legge GeorgeClintoniana del Funk Universale: F = (R m1 m2)/ r2. Buona lettura.

lunedì 28 febbraio 2011

Vivi e lascia morire


In un memorabile racconto pubblicato in Italia nel 1973, Woody Allen ironizzava sull'ossessione, in passato tutta accademica, per la ricerca di manoscritti, notarelle, inediti di varia natura, dal quale lo scrupoloso erudito potesse evincere una nuova prospettiva su tutta l'opera di un autore (nel caso si trattava delle "Note di Lavanderia" di Hans Metterling, indimenticato artefice di opere seminali come "Le Confessioni di un Formaggio Mostruoso" e "Pensieri di un pollo"). Da un po' di tempo tale ossessione si è allargata all'editoria di consumo, ovviamente non per una seppur discutibile brama di conoscenza, quanto per sfruttare il più possibile il nome di uno scrittore trapassato, nella speranza di vendere qualche copia in più; Cristina Taglietti, in un articolo del Corriere della Sera del 21 gennaio scorso, analizza il fenomeno con particolare riferimento alle recenti uscite di bestseller post mortem: Bolaño, Crichton, Mark Twain (un interessante caso di pubblicazione a cent'anni dalla scomparsa, ma su indicazione dello stesso autore) fino a Bjorn Larsson, la cui moglie ha appena dato alle stampe (non ancora in Italia) "Millenium, Stieg ed io", un libro di memorie che dovrebbe anticipare (c'è una battaglia legale in corso con il padre e il fratello dello scrittore, unici eredi) il quarto libro della saga intitolato (ironicamente?) "La vendetta". Vedo già disegnarsi un sorriso sul volto dello scafato appassionato di musica: dalla nascita della registrazione fonografica, con l'avvento del 33 giri, ogni artista degno di questo nome - ma anche no - è stato costretto a subire, alla sua scomparsa - ma a volte anche in vita, causa contratti discografici capestro - qualsivoglia tipo di riesumazione musicale. I concerti innanzitutto, parliamo di quelli non ufficiali (Charlie Parker tanto per fare un nome, fu ossessionatamente registrato da Dean Benedetti, che per motivi di scarsità di nastro tenne soltanto i suoi assoli, poi raccolti nel monumentale "The Complete Benedetti Recordings of Charlie Parker"), i cosiddetti bootleg, che impazzarono nei tardi '70, con la loro copertina bianca e un foglio incollato con i crediti, nascosti negli scaffali più inaccessibili dei negozi, dove chiunque poteva trovarli, per poi 'godere' del rumore di fondo e degli applausi dei vicini dello sconosciuto registratore. L'arrivo del cd, con la sua falsa promessa di miglioramento acustico, rinvigorì il fenomeno: oltre alla ripubblicazione di tutto quanto già esisteva in vinile, il mercato fu invaso da migliaia di concerti, "demos" e "rare and unreleased recordings". La stretta legale che li ha fatti nuovamente scomparire, è stata riassorbita dal mercato ufficiale, che ha compreso quale potenziale business si potesse celare nello sfruttamento della psiche del povero collezionista. Adesso i concerti e le tracce inedite saltano fuori, spesso anche impeccabilmente rieditati, in aggiunta a costosissimi box o de luxe edition curati dagli stessi artisti se ancora in vita o da Fondazioni dedicate, presiedute da madri, vedove e sorelle inconsolabili e insaziabili: così tocca riscrivere le intere discografie di Jimi Hendrix, di Frank Zappa, di Jeff Buckley (un solo disco in vita, decine dopo il misterioso annegamento del 1997), ma anche di King Crimson, Who, per non parlare di Beatles e Rolling Stones... Anche in Italia modestamente ci stiamo dando da fare, per adesso con Gaber e De Andrè, prossimamente con... bè, lascio immaginare o sperare a voi chi. Ma tutto questo migliora la conoscenza dell'opera di un musicista? O serve soltanto a sfamare il nostro bisogno di trovare conferme, a elaborare il lutto per i parenti più stretti o a rimpinguare le casse di avidi discografici? Difficile discernere tutte queste componenti, spesso simultaneamente presenti in parti più o meno uguali. Per i sempre più tartassati collezionisti (o per i semplici fedeli di un culto laico quale quello di "Faber" ad esempio), non resta che aggirarsi tra gli scaffali dei negozi dei dischi come in un cimitero vivente, alla scoperta di nuove lapidi che possano colmare il nostro desiderio d'infinito: "But in this ever changing world in which we live in, Makes you give in and cry, Say live and let die, Live and let die".

lunedì 21 febbraio 2011

Douce France, cher pays de mon enfance


Dopo il successo della manifestazione del 13 febbraio, da più parti si è auspicata una reiterazione delle iniziative atte a favorire le dimissioni del nostro (?) Primo Ministro. C'è chi ha parlato di riempire le piazze tutte le domeniche, chi ha proposto di preparare un'edizione indimenticabile dell'8 marzo. La maggioranza invece, dopo la giornata "In mutande ma vivi" organizzata da Giuliano Ferrara con grande consenso di pubblico (pagato), ha deciso di contrattaccare in maniera decisa con un evento programmato per il 10 marzo alle ore 21 al Teatro degli Arcimboldi. La discrezione con cui è presentato, sia sul sito del teatro milanese, sia sugli sparuti manifesti affissi sui muri in città, così come la falsa prevendita in atto (tra i 20 e i 45 euro), non inganna l'attento osservatore: non ci troviamo di fronte ad un semplice spettacolo al quale chiunque potrà intervenire. Il prossimo concerto di Mariano Apicella sarà, infatti, lo snodo politico della Seconda Repubblica (o Terza, decidete voi in quale ci troviamo). I meno avveduti potranno credere che quella sera il cantautore napoletano (figlio d'arte di papà Tonino, fan nientepopodimenoche di Peppino Gagliardi e che ha addirittura iniziato la carriera in un ristorante di Abu Dhabi: tutte notizie tratte dalle sue note biografiche) presenterà semplicemente le sue canzoni: quelle dei primi tre album nati dalla collaborazione con Silvio (nel 2003 "Meglio 'na canzone", nel 2006 "L'ultimo amore" e "Napoli nel cuore") e quelle del disco nuovo già annunciato per l'autunno scorso e di cui non si è saputo più nulla ("il disco ha un titolo provvisorio: «Con l'amore si può»; «Se tu non fossi tu» sarà il pezzo di punta della compilation, sarà venduto anche come singolo e con il presidente Berlusconi stiamo pensando anche ad un video"; virgolettato tratto da un articolo apparso su il Giornale in data 29 agosto 2010). Certo, nell'imponente Scala-bis disegnata dalla matita di Vittorio Gregotti, capace di contenere quasi 2.400 persone, risuoneranno le rime di tutti gli immortali successi cofirmati dal duo; ma quando si spegnerà l'eco degli ultimi versi, un improvviso cambio di luci illuminerà il Cavaliere seduto in prima fila, circondato dai suoi più cari amici (Lele, Giuliano, Vittorio, Emilio, per parlare solo degli uomini). Quasi ritroso Silvio ascenderà al palco per un discorso che risveglierà le coscienze della nazione in vista delle imminenti elezioni (o del colpo di Stato, decidete voi). Trionfo finale e, a gran richiesta del pubblico acclamante, ancora una canzone, accompagnato da Mariano e la sua chitarra: "Pigalle", la stessa con cui il nostro Premier si mantenne alla Sorbonna in anni non sospetti. "C'est le grand marché d'amour, C'est le coin où déambulent, Ceux qui prennent la nuit pour le jour... Girls et mann'quins, Gitan's aux yeux malins, Qui lisent dans les mains, Pigalle, Clochards, cam'lots, Tenanciers de bistrots, Trafiquants de coco, Pigalle". Proprio vero, un uomo che si è fatto da solo e che, fin da giovane, sapeva dove sarebbe andato a finire. Bravò Monsieur le President!

lunedì 14 febbraio 2011

... del bel paese là dove 'l sì suona


Non ci sono né Gaber (“io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”), né Fabri Fibra ("voglio andare in Inghilterra, in Inghilterra sei al verde avrai un sussidio, in Italia sei al verde io non t’invidio”), ma nemmeno “Azzurro” e “Volare” che pure ben avrebbero rappresentato un’Italia che ancora credeva nei sogni. Stiamo parlando del Festival di Sanremo e della serata di giovedì 17 febbraio, Nata per unire,

dedicata ai 150 anni dell'Unità (dove avrebbero dovuto esserci l'inno partigiano “Bella Ciao” e quello fascista “Giovinezza”; ma, come ha affermato candidamente Gianni Morandi, “per non scontentare abbiamo deciso di toglierle tutte e due”). Quattordici canzoni, interpretate dai big in gara, scelte con criteri dettati dal più classico cerchiobottismo all’italiana, quasi un Manuale Cencelli della canzonetta, che ha ovviamente tagliato fuori una buona metà del paese (quella che davvero ascolta musica e che non guarda Sanremo). Vediamo le scelte e cerchiamo di comprenderne i reconditi motivi: si parte, in ordine cronologico (non sappiamo quello di presentazione al pubblico) dal 1842 con il “Va' pensiero” di verdiana memoria, che se pur cantato dagli Ebrei prigionieri in Babilonia è ormai l’inno ufficiale dell’Italia leghista (intona Al Bano, unico tenore leggero disponibile). Sempre a meta del XIX secolo si colloca “Addio,mia bella, addio”, inno patriottico per eccellenza (già remixato all’epoca da imboscati e disertori che cambiavano la terza strofa in “Addio mia bella addio,
che l’armata se ne va e però non parto io, ché invece resto qua”), scelto sicuramente per compiacere il ministro della Difesa La Russa (interpreta Luca Barbarossa, da sempre vicino al PD, per rimarcare che anche la sinistra è vicina ai nostri soldati). Sempre a metà ottocento risale “Mamma mia dammi 100 lire” (Max Pezzali),
un canto di emigrazione nato probabilmente in Veneto, molto diffuso in tutta l'area padana, ancora un gentile omaggio al fido alleato leghista. Del 1898 è invece “'O sole mio” di cui c’è poco da dire: scelta per compiacere forse Alessandra Mussolini o forse la vecchia DC di Rotondi, certamente tutto l’elettorato meridionalista in genere (canta Anna Oxa, di salde origini albanesi, perché terroni ed extracomunitari li rispettiamo entrambi). Nel 1915 Aniello Califano e Enrico Cannio scrivono “'O surdato 'nnammurato”, tono allegro e spensierato per la triste descrizione della vita di un soldato al fronte durante la Prima guerra mondiale, che soffre per la lontananza dalla donna di cui è innamorato. Ancora La Russa, magari in visita alle truppe italiane in Afghanistan. (Stendiamo un velo più che pietoso sul fatto che la canterà Roberto Vecchioni). Arriviamo al ventennio con “Parlami d'amore Mariù” (La Crus: era proprio necessaria la reunion?), resa immortale dalla voce di Vittorio De Sica, che la interpretò nel film “Gli uomini, che mascalzoni” di Mario Camerini. Siamo in piena era dei telefoni bianchi (lo status symbol del periodo); non ancora intercettati però, e qui il pensiero vola ai mille problemi del nostro Primo ministro con tutte le Mariù dei nostri giorni. Ancora ventennio con Patty Pravo (da non credere eh?) e “Mille lire al mese”, probabilmente voluta da Tremonti (ma a Confindustria e Marchionne non dispiacerebe, con l’inevitabile adeguamento in euro). Con “Mamma”, cantata all’epoca da Beniamino Gigli (e qui dalla neo-mamma Anna Tatangelo: lacrime a non finire) arriviamo al 1940; per la venerazione verso l’illustre genitrice del nostro premier non sembrano esserci dubbi sui motivi della scelta. Improvvisamente si salta di altri vent’anni ed ecco “Il cielo in una stanza”, l’amore bohémien con la canzone forse più celebre di Gino Paoli, parolata da Mogol, che in prima serata a Sanremo promette una bella mitragliata di SIAE per i due autori (Giusy Ferreri, speriamo non si lamenti come suo solito). Sei anni dopo ed è “La notte dell'addio” forse un monito per Fini, forse un regalo all’euro-parlamentare PDL Iva Zanicchi per una canzone di cui tutto si può dire, ma non che abbia fatto la storia d’Italia musicale (a cura del redivivo Luca Madonia con Franco Battiato). Del 1971 è “Here's to you” scritta da Ennio Morricone per i titoli di coda del film di Giuliano Montaldo “Sacco e Vanzetti”, dove la cantava Joan Baez: vocazione pacifista e cattolica (Modà-Emma). Ancora un Mogol, annata 1972, quando, appena separato dalla moglie, incontra il nuovo amore e lo consacra con “Il mio canto libero”, evidente anelito divorzista (arriverà qualche anno dopo in Italia), ma che testimonia anche di una destra laica che certo non vuol tornare indietro ai tempi dell’oscurantismo clericale. Il monumento alla paraculaggine è inconfutabilmente Davide Van De Sfroos con Viva l'Italia”: il cantautore, in passato al centro di polemiche per il dialetto lumbard e la sua presunta vicinanza alla Lega, si confronta con De Gregori (e cosa può dire qui la sinistra?) e la canzone che accompagnò i congressi del PSI per tutto il quindicennio di gestione craxiana. Omaggio inevitabile al leader maximo (del quale anche lo stesso De Gregori ha nostalgia: "se ripenso a Craxi credo che intellettualmente sia molto superiore a tanti politici di oggi”). Infine il titolo che più di ogni altro non rappresenta l’Italia (che evidentemente non è stata ancora fatta), ma “L'italiano”, in particolare quello fatto da sé: sarà
Tricarico a urlare a squarciagola, probabilmente con tutto l’Ariston in coro, quelle che potrebbero essere le parole pronunciate da Silvio Berlusconi di fronte ai giudici (se mai un giorno ci si troverà davanti): “Lasciatemi cantare
con la chitarra in mano,
lasciatemi cantare
una canzone piano piano.
Lasciatemi cantare,
perché ne sono fiero:
sono un italiano, un italiano vero”. Un’arringa difensiva al quale nessuno potrà resistere. E via, tutti in coro, per l’inno di Mameli finale. Il resto ovviamente è noia. No, non ho detto gioia.

lunedì 7 febbraio 2011

Sono solo canzonette


La consueta classifica annuale dei frequentatori del negozio e dei lettori del sito di Disco club ha visto trionfare l’inutile disco degli Arcade fire seguito da Beach House, National e Roky Erickson. A niente sono valse le richieste, più che motivate, di introdurre classifiche specifiche per generi, che avrebbero permesso visibilità a dischi meritevoli, ma che non dispongono dell’appeal ‘mediatico’, di un consenso generalizzato o trasversale necessario a entrare tra i piani alti della lista. Niente da fare, l’istanza è stata rintuzzata senza pietà, in ossequio a quel pensiero unico che da sempre pervade la comunità di cui sopra: unico il pensiero, unica la classifica. Niente a che vedere con gli Stati Uniti, il paese dove tutto è possibile, dove domenica 13 febbraio alle 20 (ora di Los Angeles) avrà inizio la cerimonia di premiazione dei Grammy Awards 2011, quelli che tutti per brevità chiamano gli Oscar della musica. Qui le categorie sono centonove (109), tra cui si segnalano una per le migliori note di copertina, una per i migliori box, una addirittura per il “Best New Age Album”, un genere di cui nessuno serbava ricordo e rimpianto (a una profonda analisi però, le categorie si riducono a centootto - 108 - perché nel 2010 il “Best Regional Mexican Album” non sarà attribuito per mancanza di concorrenti. Pazienza). Senza fare previsioni (chi è davvero in grado di sapere cosa pensano gli americani di musica, cinema e politica estera?) scorriamo alcune categorie: nel disco dell’anno troviamo sempre gli Arcade fire, presenti anche nel “Best Alternative Music Album” (ecco la cinquina completa: Band Of Horses, The Black Keys, Broken Bells, Vampire Weekend), oltre a un quartetto impresentabile composto da Eminem, Lady Gaga, Kate Perry e Lady Antebellum (due uomini e una donna, fanno country e ciò vi basti). Nel jazz la situazione non migliora: i candidati in lizza sono The Stanley Clarke Band, Joey DeFrancesco, Jeff Lorber Fusion, John McLaughlin, Trombone Shorty (vengono da New Orleans, ma sembrano i Raydio di Ray Parker jr.; se non sapete chi è, non indagate). Anche qui bisogna spulciare tra le tante righe per trovare “Historicity” di Vijay Iyer (il mio disco dell’anno) o Keith Jarrett (ma per il solo di “Body and soul” e non per l’intero “Jasmine”). Insomma la situazione è plumbea un po’ ovunque e anche l’estrema specializzazione non garantisce un livello qualitativo nella varietà proposta, a dimostrazione che il pensiero unico finisce per essere davvero un pensiero totalizzante. Non resta che fare da sé, ascoltando in giro e scegliendo quello che più ci aggrada, senza lasciarsi andare alla solita litania che non si sa dove ascoltare la buona musica: in rete tra YouTube, MySpace e le radio specialistiche (per gli amanti del jazz segnatevi questa per esempio: http://www.jazzradio.com/) c’è solo l’imbarazzo della scelta. Se poi sceglierete gli Arcade fire (che magari vinceranno anche un Grammy), peggio per voi; ma in fondo sono solo canzonette.

lunedì 31 gennaio 2011

L’importante è finire


Pur leggendo scrupolosamente il faldone delle intercettazioni e delle deposizioni, le dichiarazioni e le smentite, gli editoriali e gli articoli di fondo, i dibattiti televisivi e i tg, alla fine il dubbio resta: ma nelle serate di Arcore, quale colonna sonora faceva da sottofondo allo sfrenato Bunga Bunga del Basso Impero berlusconiano? Girellando sul web, ascoltando la radio, occhieggiando le tv, in molti si sono cimentati, con prevedibile successo in cover con il testo leggermente modificato, che ironizzano su quanto accadeva nelle feste stile “Eyes wide shut de noartri”. Nessuno ha però sollevato la decisiva questione di cui sopra; ce ne facciamo carico noi, con una serie di ipotesi che ci guideranno man mano verso l’accertamento della verità. Innanzitutto partiamo dalla domanda basilare: si ascoltava musica durante quelle serate? Certamente sì: siamo a conoscenza del passato di crooner da crociera del premier e sappiamo anche del suo sodalizio artistico con Michele Apicella, foriero di brani memorabili quali “Se tu non fossi tu”, “Ma se ti perdo”, “Quann 'o core”, “Stay with me”, “Tempo Di Rumba”; ma non crediamo fossero questi, a parte forse l’ultimo, i titoli proposti nel corso di quelle notti bollenti. Partiamo dall’altro dato sicuro in nostro possesso: l’età dei partecipanti di sesso maschile è piuttosto alta, il loro vissuto e il loro immaginario (ammesso che ne abbiano uno) è certamente quello degli anni ‘60. Il Resident DJ di Arcore è uomo navigato, che ben conosce le abitudini e i desideri dei suoi ospiti (le ragazze molto probabilmente sull’argomento - come su molti altri - non hanno voce in capitolo). Quando ancora nel salone si aggirano solo camerieri e maggiordomi, forse arrischia qualcosa di Otis Redding o Marvin Gaye; ma quando cominciano ad arrivare gli invitati si passa ad una ‘lounge music’ di sottofondo, ottima per le chiacchiere di riscaldamento su prezzi e prestazioni. All’entrata dell’ospite parte l’inno di Forza Italia (sempre meglio ribadire, in tempi incerti come questi, in cui il voto potrebbe arrivare da un momento all’altro) accolto da applausi, che sfumano lentamente; si passa ad una programmazione prevalentemente italiana, il Peppino Di Capri di “Roberta”, Fred Bongusto, il Califano di “Tutto il resto è noia”. L’atmosfera si scalda: arriva un microfono per il Cavaliere, che parte con un suo cavallo di battaglia, “Ne me quitte pas” (e chi ha orecchie per intendere intenda). Qualcuno si alza dai tavoli, facendo ampi gesti verso il dj, invocando la “Lambada”, buona per lo struscio d’approccio; qualcun’altro si sposta sopra i tavoli per “Twist and shout” (sempre in versione Di Capri), poi è la volta di “Disco Samba” dei Los Joao, per un trenino sudato e alticcio che porta dritti dritti nelle camere da letto. Il personale comincia a sgombrare le macerie, nel salone non c’è quasi più nessuno, è il momento dei lenti, la voce di Mina regna sovrana: “Adesso arriva lui, apre piano la porta, poi si butta sul letto…e poi e poi e poi e poi, spegne adagio la luce, la sua bocca sul collo, ha il respiro un po' caldo, ho deciso lo mollo, ma non so se poi farlo, o lasciarlo soffrire, l'importante è... finire”.

Se qualcuno desidera la compilation musicale delle serate nella villa di Arcore può richiederla alla mia mail; gli sarà inviato il link segreto per il download, ovviamente illegale. E che qualche giudice si provi a indagarci!

lunedì 24 gennaio 2011

I pericoli del web


Il mio blog ha due lettori fissi, la mia amica Marina, che vive a Boston e ha nostalgia di questo rottame di paese e Marco Cannibal kid, che non sono sicuro di aver capito chi sia. Dalla maggior parte dei miei lettori (sempre che la maggior parte non siano questi due, ma vogliamo essere fiduciosi) raramente arrivano riscontri o commenti, se non talvolta a voce quando li incontro da qualche parte; ma va bene, perché anch'io farei così. Però, in 75 numeri di questa sconclusionata rubrica, credo di aver dato un'idea della musica e del mondo che mi parrebbe e mi piacerebbe. Invece, dopo l'ultimo scritto dedicato alla scomparsa della recensione dalle pagine della rivista XL (rivelatasi temporanea, ma ne parleremo in occasione dell'uscita di febbraio dell’inserto di Repubblica), trovo addirittura due commenti: uno di Marco, ironico, l'altro di un anonimo che mi scrive: "Ciao, vorrei segnalarvi che Matteo Macchioni, un tenore che ha partecipato nel 2010 ad ‘Amici’ ha appena fatto uscire il suo singolo ‘Trasparente’, scritto da Pacifico. Potete ascoltarlo qui: www.youtube.com/watch?v=_g42QLsOVNM&N”. Sorvolando sull’immotivata mancanza di firma, non mi perdo d’animo e vado su YouTube pensando che la parola ‘tenore’ e la parola ‘Amici’ non devono condizionarmi. E poi Pacifico ha scritto anche belle canzoni; ma soprattutto, vista la rarità di commenti, non voglio credere che l’anonimo che ne ha lasciato uno (il 50% del totale), sia arrivato sul mio sito per puro caso, senza degnare di uno sguardo uno dei miei post, le recensioni che sono lì in bella vista di lato o gli elenchi dei dischi preferiti dell’anno e di ogni settimana. Il video parte: Gerry Scotti (ahia!) lo presenta mentre le telecamere inquadrano i genitori piangenti di una bambina che ha appena cantato. Macchioni siede al pianoforte, sembra appena uscito da un parrucchiere che ha esagerato col whisky, completo grigio con cravatta e camicia in tinta, inizia la sua esibizione: “Distratta sei, bellissima, guardami se puoi, arrendersi, cadere giù, io ci sarò per te”; qui arriva un accenno tenorile, parte l’orchestra con profluvio di violini (scopriremo che sono opera di Vincent Mendoza) e il brano si trascina per tre minuti e ventiquattro secondi senza alcun motivo plausibile. Improvvisamente comprendo i rischi e i pericoli che si nascondono nei meandri della ‘rete’; riguardo il mio blog con i due solitari commenti e decido di lanciare un appello: Anonimo, perché l’hai fatto?

giovedì 20 gennaio 2011

DISCHI ACQUISTATI PIU' O MENO LEGALMENTE O ASCOLTATI PIU' O MENO SBADATAMENTE TRA IL 7 E IL 20-1

Tor Lundvall Ghost Years
Amos Lee Mission Bell
Roky Erickson with Okkervil River True Love Cast Out All Evil
Scott Colley Empire
Janelle Monae he ArchAndroid
Vasco Rossi Ma cosa vuoi che sia una canzone
Colin Vallon, Patrice Moret, Samuel Rohrer Rruga
Gang Of Four Content

lunedì 17 gennaio 2011

XL: la musica è finita


L’edicolante me lo porge insieme a Repubblica; per una volta accetto l’inserto volentieri, anche se in copertina l’ovale di David Bowie post Ziggy Stardust (sguardo patetico e, forse all’epoca, ambiguo) non invita certo alla lettura. Si tratta del numero di gennaio di XL, il mensile ‘giovane’ del gruppo Editoriale L’Espresso s.p.a., un colosso che comprende quotidiani, settimanali, radio (Capital, DeeJav) e anche un accenno di TV, nel poco etere rimasto disponibile. Lo sfoglio distrattamente scorrendo la posta dei lettori, le ultime da New York, Londra e Berlino (la città cool del momento), gli editoriali delle firme di pregio: Bruce Sterling, Carlo Lucarelli, Niccolò Ammaniti, Mika, Carmen Consoli, il Trio Medusa. Poi parte la sezione Volume, che contiene classifiche, film, fumetti, libri, videogame e in ultimo Glam, la parte del giornale dedicata al fashion. Fine. A parte il profluvio di termini anglo-sassoni e la mancanza della basilare rubrica dello psicologo, sembra tutto normale. Almeno all’apparenza. Qualcosa non torna però. Lo risfoglio tutto, partendo dal fondo. Scopro la rubrica dei motori, che mi era sfuggita, ma non è certo lei che allevia un disagio cui non so dare risposta. Mi soffermo sulla recensione del bellissimo libro dedicato alle copertine black anni ’70 (Funk & Soul covers, Taschen, 29,99 euro: consigliatissimo) e vengo fulminato da un’illuminazione: in XL ci sono i protagonisti (rigorosamente divisi per pubblico: Bowie dedicato ai suoi coetanei sessantaquattrenni, i Grunge years per i trentacinque-quarantenni, i White Lies e i Quintorigo con Juliette Lewis per i ragazzi di oggi), ci sono le canzoni, i video, la playlist (sempre curiosa, di Emiliano Corretti), le copertine, le foto, ma mancano i dischi. Lo riguardo dall’inizio, ancora una volta: leggo ancora qualche articolo, ma non trovo traccia dello ‘scuro’ oggetto desiderio: il disco e non nel senso del vinile, figuriamoci, è scomparso o, per essere più precisi, è svanita nel nulla la recensione. Da sempre erano quelle venti/trenta righe a rappresentare il vero fulcro attorno al quale ruotava la rivista musicale, fosse Ciao 2001, Gong o Muzak, il luogo dove si consumavano misfatti, si collezionavano topiche, si scoprivano talenti, le prime pagine ad essere febbrilmente sfogliate per scovare il disco che avrebbe cambiato la nostra vita. Ora tutto questo non c’è più. Certo, in molte altre riviste la recensione continua a imperare, anzi le pagine dedicate si sono addirittura moltiplicate; ma se l’inserto musicale del principale quotidiano italiano decide di rinunciare alla recensione del disco/cd vuol dire che omai la musica si è definitivamente smaterializzata, ritornando in fondo alla sua dimensione originaria. Riprendo XL in mano; in una delle prime pagine, vicino al colofon, dove stanno i nomi di quelli che la rivista la fanno (ciao Flavio), c’è la pubblicazione delle sentenze della Procura di Roma contro Mansour Sambon, Modou Sow, Ndiaye Mamadou, Sow Thierno. Arrivati tutti dal Senegal, sono stati giudicati e condannati per aver venduto cd falsi: è l’unica traccia rimasta del nostro amato oggetto; per le recensioni invece, rivolgersi altrove.

venerdì 14 gennaio 2011

DISCHI ACQUISTATI PIU' O MENO LEGALMENTE O ASCOLTATI PIU' O MENO SBADATAMENTE TRA IL 7 E IL 14-1

The Ramones Brain Drain
Pearl jam Live On Ten Legs
Greg Allman Low country blues
Thurston Moore Suicide Notes For Acoustic Guitar
Maria Taylor Lady Luck
Asa Beautiful Imperfection
Jan Bang And Poppies From Kandahar
Punkt Crime Scenes
Who Who’s next (deluxe edition)
Original soundtrack I’m not here

martedì 11 gennaio 2011

Io e te (dove non si parla di Gianna Nannini e la figlia Penelope Jane, ma del suo nuovo disco)


Arrivo in ritardo, un dirigente della Sony sta già parlando, ovviamente con toni entusiasti, del disco che tra poco ascolteremo in anteprima, frutto di un periodo di 'straordinaria creatività' di Gianna. Applausi e urla dal secondo settore del Teatro Elfo/Puccini di Milano che ospita l'evento, quello in cui sono sono stipati i fan della community. Il primo è riservato ai media, anche se si mormora che alcune interviste siano date ad personam nel backstage e tra gli eletti si fa il nome di Signorini. Alle 11.10 si spengono le luci, quelle del secondo settore, il primo resterà illuminato per permettere ai giornalisti di scrivere. O di essere beccati se parlottano o si addormentano. Sul maxi-schermo una maxi-fotografia della Nannini, giubbotto di pelle, jeans con l'elastico, maglietta sollevata a mostrar la pancia che fu (ma la maternità non è argomento di conversazione ci diranno più tardi, la signora Nannini "è stata attaccata per aver strumentalizzato il suo lavoro a fini promozionali": un lapsus interessante, se si considera che il singolo ha l'ecografia di Penelope Nannini in copertina, mentre l'album porta la foto di cui sopra). Parte il primo brano e con lui i disegni, sulla foto, opera di Michelangelo Pistoletto, tanti ovali con due cerchi adagiati e un puntino al centro. Una linea lega tutti puntini e transita per l'ombelico della Nannini; ma sbagliate a pensare che c'entri la sua maternità. Il disco lo ascoltiamo per intero, mentre sull'immagine immobile continuano a gironzolare gli ovuloni di Pistoletto: undici brani che parlano tutti inderogabilmente d'amore, con frasi che sembrano uscite dritte dritte dai miei diari di terza media. Arrangiamenti monotoni del mago Will Malone che dà il meglio di sè nella cover di "Volare", resa con un zum-pa-pa di fondo e chitarre rock. Alle dodici in punto la musica finisce, si riaccendono le luci e arriva lei, intabbarata in un mantello che ruota teatralmente, getta per terra, rimanendo in smoking e camicia bianca. Entra una poltrona e partono le domande dei soliti giornalisti, poco più noiose e prevedibili delle canzoni. E le risposte non sono da meno, nonostante il cipiglio ribelle della Gianna che arriva a dire che "non bisogna pensare a destra e sinistra, se no non si viene a capo di niente". Salvo aggiungere che lei è comunque a favore delle differenze. In mezz'ora è tutto finito con un'ultima notazione sulla prossima tournée: inizierà da Milano a fine aprile e sarà preceduta da un evento privatissimo con il battesimo di Penelope da parte di alcuni padrini e madrine vip i cui nomi sono, per ovvi motivi, segretissimi. Ma non crediate che questo c'entri con la maternità della Nannini. Arrivano le rose dei fan con tanto di biglietto letto senza troppa convinzione, poi lentamente il teatro si svuota verso il buffet dove lei non ci sarà. Forse è l'ora della pappa: ma questo non c'entra con la presentazione del disco.

lunedì 10 gennaio 2011

Scrivere in musica: Sunset park



Benché uno dei protagonisti sia il batterista dei Mob Rule, un “roco, dissonante, improvvisato” gruppo (alla Lounge Lizard) che raccoglie in media due o tre date al mese, non c'è molta musica nell'ultimo, meraviglioso libro di Paul Auster, “Sunset Park”. Il romanzo ha inizio a Miami, in Florida, dove Miles Heller si è autoesiliato per un drammatico evento della sua infanzia, ma presto l'azione si sposta a New York, nell'amata Brooklyn di Auster (e Lou Reed tanto per fare un nome), intorno ad una casa occupata abusivamente nei pressi del cimitero di Green Wood. Ma quello che importa qui non sono le vicende dei protagonisti, che per le più disparate congiunture e circostanze si trovano intrecciate tra loro, quanto il fatto che il romanzo sia strutturato (o almeno, a noi piace pensarlo) come una grande suite jazz, divisa in quattro parti, per un gruppo di sette elementi. Il leader è sicuramente Miles (‘nomen omen’) Heller, che introduce la vicenda (il tema) per le prime cinquanta pagine. Poi tocca al batterista, Bing Nathan, che nel secondo capitolo, dopo un assolo di presentazione, duetta a turno con gli altri strumenti, Alice Bergstrom, Ellen Bruce e con lo stesso Heller. Nella terza parte è la volta di Morris Heller, il padre di Miles (Dewey Redman con il figlio Joshua? O Ellis Marsalis con Wynton?) fino alla lunga chiusura finale della parte conclusiva in cui a turno gli interpreti, con la novità della madre di Miles, Mary-Lee Swann, riprendono il tema per svolgerlo e portarlo a compimento. Trattandosi di Auster, l’idea melodica di fondo è quella di molti altri suoi libri: il caso come impareggiabile e decisivo artefice dei nostri destini (un suo romanzo del 1990 si intitola non a caso “The Music of Chance”), un avvenimento fortuito che cambia completamente la direzione di una vita, coinvolgendone e a sua volta modificandone altre. Come accade a volte nel jazz, dove l’improvvisazione durante un assolo può condurre il musicista (e di conseguenza tutto il gruppo) verso rotte inedite e inaspettate. Trovate voi il disco con il quale accompagnarvi nella lettura di questo libro; oppure sceglietelo a caso, potrebbe rivelarsi la soluzione migliore.

venerdì 7 gennaio 2011

Why Did We Have To Part


Il nuovo brano di Marianne Faithfull lo trovate qui in download gratuito e legale: http://www.megaupload.com/?d=0ZICMPNO

mercoledì 5 gennaio 2011

DISCHI ACQUISTATI PIU' O MENO LEGALMENTE O ASCOLTATI PIU' O MENO SBADATAMENTE TRA IL 30-12 E IL 7-1

Daft Punk Tron legacy
Stefano Bollani Falando de amor
Stefano Bollani I'm in the mood for love
Gotan project Tango 3.0
Marc Almond Varieté
Tindersticks Live In London 2010
Michel Portal Bailador
Marianne Faithfull Why Did We Have To Part
Moby iTunes Live from Montreal
Anika Anika
Brian Eno Small Craft on a Milk Sea
Jimi Tenor and Tony Allen Inpiration information

lunedì 3 gennaio 2011

Due o tre cose per il 2011


La vera questione è: ci rende uomini migliori sapere che Tommy Bolin diventa il chitarrista dei Deep Purple alla dipartita di Richie Blackmore nel 1975? E che proprio Bolin è l'autore di un fantasmagorico assolo in un disco di Billy Cobham? Quel Cobham che nel 1969 partecipa alle sessioni di un capolavoro di Miles Davis, giusto vent’anni dopo che questi aveva firmato alcune meraviglie del bop insieme a Charlie Parker? La risposta è certamente no, la conoscenza musicale non ci rende migliori (e anche provando a cambiare la materia in esame - dalla musica passate alla letteratura, alla pittura, all’architettura, al cinema, al web 2.0 - la situazione non cambia). D’altra parte pensate a quante persone spregevoli conoscete con un enorme bagaglio di nozioni musicali (o letterarie o artistiche o …) e non si potrà che condividere questa riflessione. Ampliando il concetto agli stessi artisti, il quadro globale non cambia: magari Cobham (che ho solo sfiorato ad un mediocre concerto al cinema Universale di Genova negli anni ’80 e di cui non conosco la vita privata: questo è solo un esempio), è un potente e talentuoso virtuoso della batteria, ma ha la brutta abitudine di picchiare le donne (e con quelle braccia…!). Oppure Tommy Bolin ha sempre omesso nella sua dichiarazione dei redditi i proventi derivati dalle sue sessioni con i Deep Purple. (Per evitare grane legali, mi limito a esempi, assolutamente arbitrari e privi di fondamento, fuori dall’Italia, ma è facile immaginare come traslare al Bel Paese quanto detto fino ad ora). La prima questione ci conduce ad una seconda domanda: ma perché lo Stato, quindi la comunità, vale a dire noi, dovrebbe finanziare la cultura nei suoi più disparati aspetti? Perché, direbbero in molti, pur non rendendoci migliori, rende la nostra vita migliore. Certo, non quella di tutti e non allo stesso modo. Probabilmente un concerto di Richie Blackmore sponsorizzato dal Comune di Genova lascerebbe buona parte della popolazione indifferente, contribuendo alla gioia di un ristretto numero di persone (tra cui l’organizzatore del concerto che ovviamente gestirebbe l’evento come un fatto privato, pensando al suo rendiconto). Allo stesso modo però “L’elisir d’amore” di Donizetti al Carlo Felice o una mostra come “Mediterraneo
da Courbet a Monet a Matisse” a Palazzo Ducale potrebbero passare senza lasciar traccia su centinaia di migliaia di persone (ma, forse, con il plauso di albergatori e ristoratori che avrebbero qualche turista in più). Allora la domanda diventa: chi decide cosa finanziare e perché? In attesa della risposta, riascoltatevi i Deep Purple di "Come taste the band" con Tommy Bolin alla chitarra in una fiammante deluxe edition; oppure “Spectrum” di Billy Cobham, seguito immediatamente da “Bitches brew” di Miles Davis, magari nella monumentale versione che vi sarete fatti regalare per Natale. Non sarete uomini migliori, ma la vostra vita vi sembrerà migliore… (continua)

mercoledì 29 dicembre 2010

DISCHI ACQUISTATI PIU' O MENO LEGALMENTE O ASCOLTATI PIU' O MENO SBADATAMENTE TRA IL 22 E IL 29 -12

Gorillaz The fall
AA. VV. Viaggi interstellari a bordo di limoni volanti
The Smiths Unreleased Demos & Instrumentals
Maxence Cyrin Novo piano
Medeski Martin & Wood The Stone-Issue Four
Kanye West My Beautiful Dark Twisted Fantasy [Dirty]
Flora Purim Encounter
Enrico Rava Ran Blake Duo en noir
Suzanne Vega Close-Up, Vol 1, Love Songs
The Black Keys Brothers
Lionel Loueke Mwaliko
Danilo Rea Piano Works X- A Tribute To Fabrizio De André At Schloss Elmau
Gil Scott-Heron I’m new here (deluxe edition)
Gonjasufi A Sufi And A Kil
ler

lunedì 27 dicembre 2010

I migliori album 2010 per me


VIJAY IYER, Solo
GIL SCOTT HERON - I'm New Here
NEIL YOUNG - Le Noise
PAUL MOTIAN, Lost In A Dream
YOUN SUN NAH, Same Girl
MYCALE, The Book Of Angels Volume 13
ISOBEL CAMPBELL & MARK LANEGAN, Hawk
LYDIA LUNCH, Big Sexy Noise
ANTONY AND THE JOHNSON, Swanlights
GOTAN PROJECT, Tango 3.0



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domenica 26 dicembre 2010

Racconto di Natale

Un Natale di molti, molti anni fa. Qualche giorno prima della fatidica data, mio padre mi porta in un enorme negozio di giocattoli, forse addirittura un grossista, dalle parti del quartiere di San Fruttuoso, vicino alla mia prima scuola elementare. Ho qualche vago ricordo degli scaffali stracolmi di giochi, di papà che mi guida, a sua volta intimorito, tra centinaia di possibili regali. Non ricordo bene il momento della scelta, ma ricordo perfettamente la pianola regolarmente impacchettata sotto l’albero, l’attesa della mattina del 25 e poi la delusione: la tastiera, probabilmente una Bontempi agognata su qualche pagina di Topolino, non funzionava. Due giorni dopo eravamo di ritorno nel negozio, ma le tastiere nel frattempo erano finite: impossibile aspettare e così optammo per un calcio-balilla, che per un bambino di sette anni, benché figlio unico, aveva il suo innegabile fascino. Questa storia, sepolta per molti anni in quel che resta della mia memoria, è riapparsa quando mi sono deciso a rispondere alla domanda che mi sono sentito spesso rivolgere in questi anni. “Ma non suoni nessuno strumento?”. Fino ad allora la mia replica standard, un secco e asciutto no, a volte seguito dalla ripetizione della domanda, ma in prima persona e senza la congiunzione avversativa, non prevedeva infatti alcun tipo di spiegazione. Poi con il tempo ho provato a cercare, almeno con me stesso, un plausibile motivo: mi rendo perfettamente conto che far ricadere la mia incapacità, su quel lontano e sventurato acquisto è una soluzione di comodo, indegna di una persona ormai adulta e con una collezione di migliaia di dischi. Ma riconoscerete il fascino notevolmente maggiore di ammettere che, forse, semplicemente non m’interessava suonare; e soprattutto la possibilità di non confessare di non avere probabilmente alcun talento.





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Un Amore Supremo

In occasione dell'uscita in edicola di A Love Supreme, primo titolo della collezione I Capolavori del Jazz in Vinile, sono andato a ria...