giovedì 25 ottobre 2018
martedì 16 ottobre 2018
#UnVinileAlGiorno Arancia Meccanica
La classifica dei dischi più venduti del negozio dove Malcolm McDowell:/ Alexander DeLarge sta per rimorchiare due ragazze ("Cosa c'hai dove abiti sorellina per ascoltare quei tremoli piatti sonori? Scommetto che hai solo un Povero Piccolo Patetico Portatile da Pic-nic!") è del tutto falsa anche se compaiono due nomi autentici. Ma Arancia Meccanica uscirà nelle sale nel 1972 mentre gli Sparks pubblicano quasi contemporaneamente il loro primo album e quindi la loro 'presenza' va considerata del tutto casuale. Gli Heaven 17 (i Celestiali Diciassette nel doppiaggio) si formeranno invece solo nel 1981 e prenderanno il loro nome proprio dal film (o dal libro di Burgess se preferite). Il disco che si riconosce vicino alla colonna sonora di 2001: Odissea nello Spazio è "The Transfiguration of Blind Joe Death" di John Fahey. Per i più ossessivi il giradischi con il quale Alex ascolta il il buon vecchio Ludovico Van è il celeberrimo e meraviglioso Transcriptors Hydraulic. Il brano che potete ascoltare qui è Heaven 17 - (We Don't Need This) Fascist Groove Thang. Mi sembrava doveroso.
giovedì 11 ottobre 2018
#UnVinileAlGiorno American Hustle
Il film è "American Hustle - L'apparenza inganna" e mai sottotitolo fu più azzeccato. Se il disco che i due protagonisti stanno ascoltando è di immediata individuazione (questa è la seconda stampa: dall'originale mono del 1956 - Columbia CL 934 - fu rielaborata la versione Electronically re-channeled for Stereo nel 1963 - Columbia CS 8648- ; l'etichetta che si vede è quella corretta), non altrettanto si può dire della musica. Infatti quella memorabile esibizione di Ellington al festival di Newport del 7 luglio 1956 - che contiene i quattordici chorus eseguiti dal sassofonista Paul Gonsalves in Diminuendo and Crescendo in Blue - fu per il 60% circa registrata in studio due giorni dopo, aggiungendo applausi finti, perché Ellington non era soddisfatto della performance. Tra quel 60% anche il brano "Jeep's Blues" che si ascolta in questa scena con l'assolo di Johnny Hodges al sax alto. (La versione in doppio cd del 1999 ha riportato alla luce il concerto completo e la versione in studio). L'apparenza inganna!
www.youtube.com/ watch?v=dxCo8BjKwHA
www.youtube.com/
martedì 9 ottobre 2018
#UnVinileAlGiorno Jackie Brown
Mentre Jackie Brown sta per mettere sul giradischi i Delfonics, tra i dischi appoggiati per terra (si dice essere la collezione personale di Tarantino) si vede una copertina (evidenziata con la freccia gialla) su cui mi sto scervellando ormai da anni. Se qualcuno sapesse di cosa si tratta...
La freccia rossa indica invece uno dei più bei dischi dal vivo di tutti i tempi: George Benson, Weekend in L.A., Warner 1978 >www.youtube.com/ watch?v=iwiqZRR6Ci4
lunedì 8 ottobre 2018
#UnVinileAlGiorno Mission Impossible: Rogue Nation (2015)
Tom Cruise entra in un negozio di dischi e si rivolge alla commessa (non affezionatevi, la uccideranno tre minuti dopo).
- Cerca qualcosa in particolare...
- Qualcosa di raro [... ] Jazz
- Sax.
- Coltrane.
- Piano.
- Monk.
- Shadow Wilson al basso.
- Shadow Wilson era un batterista [... ]
- È fortunato, ho una prima stampa.
- Cerca qualcosa in particolare...
- Qualcosa di raro [... ] Jazz
- Sax.
- Coltrane.
- Piano.
- Monk.
- Shadow Wilson al basso.
- Shadow Wilson era un batterista [... ]
- È fortunato, ho una prima stampa.
Monk, Coltrane e Wilson suonano insieme in due soli dischi, Thelonious Monk Quartet with John Coltrane at Carnegie Hall inciso nel 1957, ma pubblicato nel 2005 (il che non ne fa un'edizione rara) e Thelonious Monk with John Coltrane, 1961, etichetta Jazzland JLP 46. NON è quello che passa tra i due nella foto, perché, come si evince dall'inserto sopra, l'etichetta è arancione; d'altronde quando sarà sul giradischi non sarà certo Trane a suonare....
giovedì 4 ottobre 2018
#UnVinileAlGiorno Lisbon Story 1995
Circa a metà del noiosissimo film di Wim Wenders, il protagonista, Rüdiger Vogler, incontra un anziano abitante di Lisbona che gli racconta la sua storia. Dietro di lui il vinile di Amália Rodrigues – No Olympia, album Columbia del 1958. Qui la storia di quel meraviglioso concerto di una delle più grandi cantanti di tutti i tempi
(l'intervista è realizzata nella casa di Amalia a Lisbona, oggi un museo a lei dedicato dove se avete fortuna potete incontrare la sua fedele segretaria che vi porterà a fare il tour della casa con le lacrime agli occhi).
mercoledì 3 ottobre 2018
#UnVinileAlGiorno Provaci ancora Sam
Nel 1972 esce Provaci ancora Sam. In una scena Woody Allen estrae dalla sua collezione un album di Oscar Peterson. Ma quella copertina che si vede nella foto non corrisponde a nessun disco del pianista canadese. Il brano - Blues For Allan Felix - fu composto ed eseguito appositamente da Peterson e si trova solo nella colonna sonora che uscì per la Paramount, edizione piuttosto rara in vinile (se non introvabile), mai stampata in cd. Per sentire il pezzo > www.youtube.com/ watch?v=jJ8eOCSWueA
sabato 3 marzo 2018
#UnVinileGiorno Il Pornoshop della Settima strada

giovedì 25 gennaio 2018
#UnVinilealGiorno Electric Dreams
Nel 1954 Philiph Dick scrive un breve racconto, Sales Pitch, che sessantatré anni diventa un episodio della serie Philip K. Dick's Electric Dreams dal titolo Crazy Diamond. Il protagonista è uno stralunato Steve Buscemi: gli capita di naufragare, ma salvando il suo disco preferito. Lo stringe al petto mentre in sottofondo partono le note di Octopus di Syd Barrett. L’etichetta di quell'album è la Harvest e se guardate bene la riconoscete nel fotogramma (e se no ve lo dico io e fidatevi). Sempre siano lodati i precisini sul lavoro.
martedì 23 maggio 2017
A me Roger Moore ha sempre fatto venire in mente il mio papà.

Ecco
spiegata la sua presenza (e la mia assenza) quel fatidico 24, a movimentare ‘flight case’ tra gli
svariati TIR che accompagnano il tour europeo di Frank Sinatra, misteriosamente
approdato in uno dei luoghi meno acusticamente adatti ad un concerto del
genere. Ma tant’è, la sera tutto è pronto: c’è grande attesa, il palazzetto è addobbato
a festa, le sedie sono sistemate davanti al palco, le prime file sono per gli
ospiti d’onore; mio padre si aggira incuriosito nel backstage, anche perché al
termine del concerto bisognerà smontare tutto. Mentre inganna l’attesa vede
Roger Moore; lo riconosce, cosa non scontata considerando la sua scarsa
dimestichezza con il cinema; gli viene in soccorso la serie Attenti a quei due che vedevamo insieme tanti
anni prima, la domenica nel tardo pomeriggio. È
elegantissimo, incute timore, dall’alto del suo metro e ottantacinque (mio
padre non arrivava all’uno e settanta). Vorrebbe chiedergli l’autografo, ma è
indeciso, la timidezza, la vergogna, una naturale inclinazione a stare al
proprio posto (considerando la fatica che aveva fatto per arrivarci - pensava -
meglio non rischiare di perderlo). Ma ecco che un po’ più in là passa Pino
Caruso: a molti di voi questo nome non dirà niente, ma tra la fine degli anni
’70 e l’inizio del decennio successivo il comico siciliano godette di una certa
popolarità. Mio padre lo riconosce, si avvicina. Lo sente più abbordabile, in
fondo è un conterraneo (mio padre era giunto a Genova da Riesi - CL, a 14 anni);
forse lo apostrofa in dialetto, chissà. Il risultato è un autografo del Caruso in
questione (che non so dove sia finito peraltro) e Roger Moore che si allontana in
sahariana verso il camerino di ‘The Voice’. La storia finisce qui e io magari un libro sul mio papà prima o poi lo scrivo davvero.
Intanto sarei curioso di sapere se
stasera troverà il coraggio di chiedergli l’autografo. Ciao, a tutti e due.
domenica 16 ottobre 2016
IL NERO E L’AZZURRO (DEL MARE)
Da sei anni vivo a Milano e due domande
implacabilmente affiorano a ogni nuovo incontro: alla prima - “non ti manca il
mare?” - ho imparato a rispondere no, lasciando cadere velocemente la
conversazione. La seconda, quella con cui l’interlocutore cerca di empatizzare,
“genoano o sampdoriano?”, ne porta con sé subito un’altra: “e come mai sei
interista?” Rispondo con questo scritto, cui da oggi rimanderò con mio grande
sollievo.
Sono nato a Genova, quartiere di Marassi, a 350 metri dallo stadio.
Era bello lo stadio vecchio; ora non c’è più, l’hanno buttato giù per Italia
’90 e l’hanno ricostruito nello stesso punto: un po’ più brutto, col prato che
non drena, togliendo i parterre, dove ogni partita c’era uno che inseguiva il
guardialinee ricoprendolo, del tutto gratuitamente, di sputazza e insulti. Lo
so perché da quando ho memoria – l’anno in questione è il 1970 - ogni santa
domenica della mia infanzia l’ho trascorsa allo stadio: con mio papà e, se lui
non c’era, con qualche vicino di casa. Un giorno col fruttivendolo del piano di
sopra sono andato a vedere Italia Lussemburgo, 5 a 0 per noi, quattro gol di
Gigi Riva (ma qui siamo già nel 1973) e ci siamo fermati a salutare Maurizio
Barendson, che lui era una gran faccia tosta
- il fruttivendolo, non Barendson - e io invece mi vergognavo come un
ladro. E quando non c’era nessuno disponibile, andavo da solo, chiedendo a un
signore qualunque, trovato lì fuori, di fingere di essere il mio papà; tanto
bastava essere piccoli e accompagnati per entrare gratis. Quando dico ‘ogni
santa domenica’ voglio proprio dire tutte le domeniche: a Genova ci sono due
squadre e ogni settimana si andava a vedere una partita, qualunque squadra
giocasse e qualunque squadra si tifasse. Mio papà era genoano e preferibilmente
mi portava a vedere il Genoa, il fruttivendolo era
sampdoriano e così santificavo anche i blucerchiati, quell’anno peraltro in
serie A con Lippi, Lodetti, Suarez e Spadetto (giocherà 175 minuti in tutto, ma
tenete a mente questo nome, ora non vi dice niente, ma ritornerà più avanti). A
scuola avevo compagni genoani e compagni sampdoriani che ferocemente e
continuamente ribadivano la loro appartenenza, con precoci discussioni da bar,
a volte ingenue, a volte crudeli; io, che per indole sono sempre stato poco
incline alla disputa, prendevo tempo, facevo il simpatico, ora con gli uni, ora
con gli altri. Ma non poteva durare a lungo; l’autunno volgeva al termine e il
campionato stentava a trovare un padrone ed ecco arrivare in soccorso l’album
Panini. Ho 8 anni e per la prima volta sono autorizzato a comprarlo insieme a qualche
pacchetto di figurine ogni settimana. Il resto lo faranno gli scambi e le
doppie del figlio del macellaio, che ne compra a bizzeffe. Per la prima volta
vedo da vicino i volti dei giocatori, le loro divise, i titolari, le riserve,
imparo a memoria i nomi degli stadi e dei presidenti. L’anno precedente il
Cagliari di Gigi Riva (stadio sant’Elia, presidente Efisio Corrias, medico
sociale dott. Augusto Frongia) ha vinto il campionato: lo scudetto si staglia
bene sulla maglietta bianca, bordata di rossoblù. Gli altri rossoblù, quelli locali,
hanno diritto allo scudetto, ma solo in forma di figurina sbriluccicante perché
sono finiti in serie C. La Sampdoria invece, come detto, è in serie A. Ma di
tenere per loro non se ne parla, non posso dare un simile dispiacere a papà. Così
mentre appiccico le figu con la colla (c’erano anche le celline - triangolini
biadesivi da apporre sul retro – ma non conosco nessuno che sia mai
riuscito a utilizzarle) e imparo le formazioni a memoria, cerco di immaginare
quale potrebbe essere la squadra dietro la quale difendermi o nascondermi, con
la quale non prendere parte al rituale degli schieramenti che fatico a
comprendere. C’è la Juve che ha già vinto una valanga di scudetti ma coincide
con la FIAT e gli Agnelli: non fa per me, ho imparato a diffidare dei padroni
sin dalla tenera età. C’è il Milan, ma l’accostamento cromatico rosso e nero mi
ha sempre infastidito. La Roma ha delle bellissime Lacoste arancioni, ma quella
città è troppo lontana. E poi ci sono i nerazzurri, che nel frattempo hanno
cambiato allenatore e hanno cominciato a vincere: ma non credo sia questa la discriminante.
Temo che il motivo sia molto più banale: in porta c’è Vieri, in difesa c’è
Facchetti. Io non riesco ancora a pronunciare la effe e così lo storpio in
Sacchetti. La cosa incontra il gradimento degli adulti – la comicità di quel
tempo era piuttosto semplice – e mio papà me lo fa ripetere quando capita, agli
amici al bar, in visita parenti la domenica pomeriggio. E io sono felice di
vederli sorridere (con la medesima soddisfazione di essere al di fuori degli
sfottò nel caso si parli di una delle due squadre cittadine) e il mio papà con
loro. Così comincio ad affezionarmi e in primavera divento definitivamente interista.
Quell’anno vinciamo il
campionato, convincendomi di aver fatto la scelta migliore.
Avrò modo di
ricredermi, ma ormai è tardi.
Il ricordo più nitido di
quella stagione è legato comunque al Genoa: il 13 giugno 1971 – la serie
A è già finita da qualche settimana – è una bella domenica di sole. Sono allo
stadio con papà, settore distinti. I rossoblù stanno per festeggiare il ritorno
nella serie cadetta (battono il Rimini per 2 a 1, gol di Speggiorin e Turone); prima
del fischio d’inizio un’enorme B di polistirolo sale verso il cielo azzurro sospinta
da tanti palloncini colorati. E io me la ricordo come fosse oggi e forse per
questo penso sempre al calcio come ad uno spettacolo del quale fatico a
comprendere i coinvolgimenti emotivi esasperati. Quell’anno finisco l’album per
la prima e unica volta nella mia vita. Ironicamente la figurina che mi fa
diventare pazzo è quella del sampdoriano Dino Spadetto (dal ’66 al ’69
all’Inter, 5 presenze due gol) me la regala il solito figlio del macellaio, chissà
che fine avrà fatto (il figlio del macellaio; e pure Spadetto).
Ancor più ironicamente qualche anno dopo l’amore mi porta a
Milano dove la mia appartenenza non mi mette più al riparo dalle discussioni
che tanto rifuggo; ma ormai devo stare al gioco, come si sa le squadre non si
cambiano.
E sì, il mare mi manca.
E sì, il mare mi manca.
venerdì 10 giugno 2016
Genova per noi?
Una
sera di qualche anno fa, dopo uno spettacolo teatrale, mi sono ritrovato a
parlare al tavolino di un bar con l’antropologo Marco Aime. Lui, torinese, a
quell’epoca insegnava a Genova e mi confessava stupito di non aver mai
conosciuto un’università al mondo in cui si insegnassero così tante materie
relative alla città e alla regione di appartenenza. Nello specifico, Genova e
la Liguria. La cosa, dopo qualche commento al retrogusto di Rossese, finì lì,
persa tra i complimenti allo spettacolo – tratto da un testo dello stesso Aime –
e le chiacchiere stanche delle serate che stanno per finire.
Qualche
tempo dopo mi sono trasferito a Milano e ho cominciato a guardare alla città in
cui sono nato con un occhio inevitabilmente diverso; soprattutto ho cominciato
a guardare ai miei concittadini con un occhio diverso. Mi spiego: nel mio
profilo Facebook la maggior parte degli ‘amici’ sono genovesi. Diciamo il 50%.
Il resto è sparpagliato in giro per l’Italia, più qualche punto percentuale tra
Europa e Stati Uniti. All’inizio non me ne sono reso conto: girellavo sulla
timeline soffermandomi a leggere i post più interessanti, più curiosi, come si
fa di solito; mettevo mi piace, commentavo o ignoravo secondo la situazione e
l’umore. E rivedevo volentieri le immagini della scogliera di Pontetto o del
monumento di Quarto, del Porto Antico rosseggiante al tramonto, del cielo
incredibilmente azzurro dietro la cattedrale di San Lorenzo, delle facce nei
vicoli introvabili altrove, dei tetti di ardesia e delle crêuze di mattoni
rossi muschiati di verde. Non dico che fossi colpito da nostalgia, ma un certo
qual sentimento di orgogliosa appartenenza si faceva largo dentro di me, che
pure ho passioni contrastanti nei confronti di una città di cui sarebbe troppo
facile e lungo elencare i demeriti e le occasioni perdute. Improvvisamente un
giorno mi è tornata alla mente la conversazione con Aime e un sospetto
strisciante ha cominciato a tormentarmi: ho iniziato, dapprima scettico e
titubante, poi sempre più convinto, a controllare i profili dei miei amici non genovesi:
milanesi, romani, napoletani, veneziani, parigini, londinesi, newyorchesi.
Nessuno tra loro postava foto della propria città, perlomeno non con l’inquietante
frequenza dei loro omologhi liguri. Nessuna Piazza Navona o Colosseo al
tramonto, niente guglie del Duomo di Milano sullo sfondo azzurro (sì, anche a
Milano il cielo è azzurro), niente Ponte dei Sospiri o Maschio Angioino in un
selfie; per non parlare dei residenti all’estero, autoctoni o emigrati: niente
Torre Eiffel e Notre Dame, zero Big Ben e Westminster, nessuna Statua della
Libertà, Cristo Redentor, Sagrada Familia; né spiagge di San Diego fotografate con
surfisti in tubi di 5-6 metri (come accade invece e in dimensioni notevolmente ridotte,
per Bogliasco e Levanto).
La
conferma al sospetto era letteralmente sotto i miei occhi: i genovesi, i
liguri, anche i più insospettabili, sono i soli a ribadire continuamente, con un
autocompiacimento che sconfina nella presunzione, l’unicità e lo splendore
della propria città/regione (salvo criticarla ferocemente in conversazioni
private, sognando di abbandonarla per cercare fortuna altrove). Prima che il
50% delle persone che sta leggendo queste righe cominci a insultarmi, preciso
che sono convinto che Genova sia una delle città più belle d’Italia; ma non sto
parlando di questo. Quello che m’interessa capire è perché si senta l’esigenza
di affermare continuamente e inesorabilmente questa bellezza e quale sia il
rapporto con il proverbiale senso di ospitalità ligure e con lo stato di
sostanziale coma in cui versa la città da anni. Magari non c’è alcun rapporto,
magari a postare le immagini non sono i commercianti che ti accolgono con
ineguagliabile savoir faire, tantomeno la classe politica che è riuscita a far
eleggere presidente della Regione Giovanni Toti da Viareggio o la classe
imprenditoriale cha ha lasciato all’irpino Enrico Preziosi o al romano Massimo
Ferrero la proprietà di due delle più gloriose squadre di calcio italiane.
Però…(continua)
PS
L’immagine che accompagna questo post è un collage approssimativo di foto
tratte da profili social di amici cari che spero vorranno prendere il mio furto
come una dimostrazione di autentico affetto. L’insegna di Disco Club non c’entra
niente, ma volevo metterla perché è uno dei motivi che mi riportano sempre in
città.
lunedì 1 febbraio 2016
Storia di un equivoco: Francesco De Gregori - La leva calcistica della classe '68
Quando nel giugno del 1982
viene pubblicato Titanic, l’ellepi[1] che contiene la canzone di cui andremo finalmente a svelare il
vero significato, in Italia Spadolini è a capo di un governo di pentapartito
che aprirà la strada a Bettino Craxi, mentre negli Stati Uniti un attore è diventato
Presidente: insomma, sta per trionfare l’edonismo reaganiano, lo yuppismo, o
molto più all’italiana la Milano da bere. Il paese è già concentrato sugli imminenti
mondiali di Spagna e forse per accattivarsi i tifosi, il brano viene scelto
come 45 giri per i juke-box[2] (nel lato B un’altra canzone dall’album, Centocinquanta stelle), anche se nelle radio libere[3] si trasmette soprattutto il pezzo che dà titolo all’album. Qualche
anno dopo Gabriele Salvatores inserisce la canzone nella colonna sonora di Marrakech Express, nella celebre sequenza della partitella di
calcio nel deserto, un’Italia-Marocco a metà tra Pasolini[4] e il terzomondismo. Forse è stato proprio allora che La leva calcistica della classe '68 ha
iniziato il suo percorso verso l’immortalità, grazie anche ai solerti
giornalisti sportivi RAI che non hanno mancato di infilarla in ogni servizietto
di approfondimento sul calcio giovanile, meglio se di periferia. Eppure a
leggere bene il testo è evidente che ci troviamo di fronte a un chiaro caso di
allucinazione collettiva. Abilmente sedotti da un dodicenne “che sembra un uomo
con le scarpette di gomma dura” e che non dovrebbe “aver paura di sbagliare un
calcio di rigore”, perché “non è mica da questi particolari che si giudica un
giocatore”, critica e pubblico hanno sempre avvalorato un’interpretazione politically
correct: che sarà mai sbagliare un penalty, “un giocatore lo vedi dal coraggio
dall'altruismo e dalla fantasia”, nello sport come nella vita i valori sono
altri. Ma le parole successive, su cui nessuno evidentemente si è mai
soffermato, contraddicono impietosamente l’assunto: Nino prende “un pallone che
sembrava stregato” e si guarda bene dal passarlo a chicchessia, tanto che “entrò
nell'area tirò senza guardare ed il portiere lo fece passare”. E allora tutti a
esaltarsi per Nino (ma se non avesse segnato, pensate che gli
avrebbero dato la maglia numero sette l’anno dopo?) e nemmeno una parola per il
povero portiere di cui non conosciamo neanche il nome (e quanta ambiguità in quel “lo
fece passare”, si può già ipotizzare una combine a livello giovanile?). Come se
non bastasse ecco l’affondo sui giocatori tristi, quelli “che non hanno
vinto mai”: “adesso ridono dentro al bar, e sono innamorati da dieci anni, con
una donna che non hanno amato mai”. Insomma autentici falliti che hanno
continuato a inanellare sconfitte, dal campo di calcio alla cucina di casa
(figuriamoci sul lavoro, ammesso che ne abbiano uno, visto che passano le loro
giornate al bar). E allora anche il ’68 del titolo, anagraficamente sbagliato (Nino
nel 1982 ha dodici anni, dovrebbe essere nato nel 1970), si rivela un cinico
sberleffo per una generazione che proprio in quel momento storico vede
profilarsi la sconfitta dei suoi ideali. E pur se la canzone resta uno dei più
fulgidi esempi dell’arte cristallina di Francesco de Gregori sia chiaro una
volta per tutte: Nino è un veroo stronzo, come tanti altri che abbiamo
incontrato sui campetti di calcio. E purtroppo anche fuori.
[1] Supporto
in vinile per la memorizzazione analogica di segnali
sonori. Molto in voga per tutto il secolo scorso; ultimamente si parla di un
suo ritorno, ma per molti non è mai andato via.
[2] Apparecchio
da installazione pubblica che riproduce brani musicali in modo automatico in seguito all'introduzione di una moneta al suo interno e alla scelta della canzone da parte dell'ascoltatore. Molto in voga tra gli anni ’50
e ’70.
[3] Espressione
riferita alle emittenti radiofoniche nate in Italia dopo la liberalizzazione
dell'etere sancita dalla Corte
Costituzionale nel 1976.
Molto in voga tra gli anni ’70 e ’80.
[4] Poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo e giornalista italiano. Molto in voga negli anni ’70 e nel 2015, quarantennale
della sua morte.
mercoledì 13 gennaio 2016
La Corrispondenza, io e Bowie
Lunedì mi sono svegliato e poco dopo Francesca ha
scritto su Whatsapp: “Merda, ma è morto David Bowie”. (Per correttezza dico che
non ho mai comprato un suo disco fino a due anni fa quando sono rimasto
folgorato da The Next Day). Tutti
scrivevano sui social dell’alieno che tornava al suo pianeta, della stella che
brillava lassù e altre cose del genere, e molti dei miei amici postavano video,
foto, immagini, raccontando pezzi della loro vita in cui si erano accompagnati
a David. Lentamente la marea cresceva coinvolgendo tutti i media e innescando
l’inevitabile risacca di quelli rispondevano dicendo che a loro di Bowie non
glien’era mai fregato niente e che musicalmente non era stato in alcun modo
importante o influente.
Ho messo Blackstar nel
telefonino (che avevo già deciso di comprare, sarebbe stato il mio secondo
disco, anche colpito favorevolmente dal fatto che ci fosse il sassofonista
Donny McCaslin) e sono andato al cinema a vedere l’anteprima nuovo film di
Tornatore, “La Corrispondenza”. Il protagonista è Jeremy Irons nei panni di un
luminare dell’astrofisica che ha una relazione con Olga Kurylenko, studentessa nella
stessa materia che per guadagnarsi da vivere fa la stuntman (è normale no?). I
due sono amanti e si vedono molto poco, ma si scrivono tantissimo: mail, skype,
chat, biglietti e lettere, una ‘corrispondenza di amorosi sensi’ quasi
esasperata, nemmeno interrotta dal fatto che dopo pochi minuti di film Irons
muore.
A colpi improvvisati la storia va avanti (a un certo
punto uno della DHL vede Amy-Olga per strada e le dice: scusi signorina, ho un
pacco per lei!); e non si può far a meno di ridere quando sempre lei porta ad
un amico smanettone una telecamera per recuperare dei video e lui le dice:
“Devo farla vedere a qualcun altro, posso?”; lei domanda a chi e lui
imperturbabile risponde “Servizi segreti”.
Insomma il solito Tornatore, anche bravo a girare per
carità, ma poi disastroso a sviluppare la sceneggiatura, tanto più con dialoghi e frasi - di cui la locandina ci fornisce un fulgido esempio - che sembrano usciti da Un Posto al Sole (sembra un complimento, ma qui stiamo
parlando di cinema). Soprattutto asfissiante nel sottolineare e ribadire il significato di ogni scena, anche il più esplicito, come se il suo pubblico fosse incapace di intendere. Così se il
professore ultimamente andava all’osservatorio a guardare la nebulosa del
granchio (‘cancer in latino), qualche scena dopo il premuroso Giuseppe fa
depositare un granchio in mano alla ragazza sempre più disperata. La nebulosa in
realtà – dice Wikipedia - è un resto di supernova che si trova a
6500 anni luce dal sistema solare così che quello che si osserva è già scomparso
da secoli; insomma la stella è morta e la luce che vediamo noi non esiste più. Avete
capito? Anche lui è morto e continua a mandare messaggi, è chiara la metafora?
Affogato in tutta questa retorica tautologica il film naufraga dolcemente con
il vantaggio, per la mente, di potersi occupare d’altro. Il pensiero così è tornato a Bowie, a Blackstar e a tutta la
sua musica, un nugolo infinito che ognuno può ascoltare quando meglio gli pare.
Bizzarra e fascinosa corrispondenza: devo mettermi a sentire Bowie, e sono un uomo fortunato, posso
comprarlo e ascoltarlo per la prima volta.
E lo siete anche voi, perché grazie a me vi potete evitare il film di Tornatore.
E lo siete anche voi, perché grazie a me vi potete evitare il film di Tornatore.
sabato 9 gennaio 2016
Metto Checco Zalone nel titolo, ma il post parla dei miei dischi 2015
Non mi piace scegliere
i migliori dischi dell’anno; ma Giancarlo (non sapete chi è: vabbè, breve
spiega. Titolare di Disco Club, negozio di dischi in Genova dal 1965, dove io
ho lavorato; sul suo sito articoli e curiosità musicali, scritte da
clienti-amici, amici-clienti e nullafacenti) ogni anno mi viene a prendere per
un orecchio e mi chiede, mi ordina per la precisione, di mandargli la classifica.
E allora lo faccio, anche
se malvolentieri perché non mi piace mettere in fila i dischi che ho comprato,
perché appena ho inviato la lista ritrovo il disco che assolutamente doveva
stare nei primi dieci e che ho dimenticato di mettere, perché i dischi che
scelgo, io che sento soprattutto jazz, in un negozio prevalentemente di rock non li segnala nessuno
e trattandosi di una classifica a punti (dieci al primo, nove al secondo e così
via) i miei preferiti non hanno nessuna speranza di entrare nemmeno nei primi trenta
(per un certo periodo ho fatto due classifiche, una jazz e una rock, così
almeno qualcosa nella seconda si vedeva, poi mi sono stufato).
Però la faccio anche
volentieri anche perché così sono costretto a riprendere dischi che ho comprato
dieci-undici mesi fa e che nemmeno mi ricordo di avere, mi costringo a
riascoltare quelli che hanno lasciato una buona impressione ed provo anche a
rimettere a posto tra le colonne di cd e vinili.
Ma perché tu quanti dischi
compri in un anno?
Boh, 300, 400 chi lo
sa, ma mica è questo il punto no?
E allora da quest’anno
si cambia: ora scriverò tutti i titoli che acquisto in un bel file di Excel,
con una colonna con il voto, così a dicembre sarò preparatissimo; basterà
mettere in ordine per colonna C e via, senza ansie e senza oblii.
Intanto vi segnalo il
primo del 2016, acquistato a Middleburg, in Olanda (Zelanda per la precisione),
in una caffetteria che ha qualche vinile e nel retro una bottega da barbiere.
Vi allego foto con sacchetto ricordo e disco; lo so, è vecchio e non potrà
partecipare al referendum 2016.
Ma non è questo il
punto no?
Steve Coleman - Synovial
Joints
Maria Schneider
Orchestra - The Thompson Fields
Vijay Iyer Trio - Break
Stuff
Ran Blake - Ghost
Tones
Bill Wells & Aidan
Moffat - The Most Important Place In The World
Shilpa Ray - Last
Year's Savage
Fred Hersch - Solo
Tobias Jesso jr – Goon
Father John Misty - I
Love You, Honeybear
D'Angelo & the Vanguard - Black Messiah
P.s. metto solo dischi
che ho e che ho ascoltato; non sono ancora riuscito a comprare i Blur e Paul
Weller è ancora lì sigillato, ma mi piaceva scrivere il suo nome.
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Un Amore Supremo
In occasione dell'uscita in edicola di A Love Supreme, primo titolo della collezione I Capolavori del Jazz in Vinile, sono andato a ria...

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Non sono un critico letterario. Non so nemmeno cosa sono a dire il vero, ma fondamentalmente mi sento un commesso di dischi, il mestier...
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Non mi piace scegliere i migliori dischi dell’anno; ma Giancarlo (non sapete chi è: vabbè, breve spiega. Titolare di Disco Club, negozio ...
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Sono iniziati i Mondiali, inutile cercare di ignorarlo: ogni quattro anni arrivano su maxi-schermi all’aperto (‘lights’ in Duomo a Milano su...