lunedì 29 novembre 2010

Yes I know, my way


Un vecchio adagio recita: mai conoscere di persona i proprio idoli, musicali, letterari o anche calcistici; impossibile, per loro, restare all’altezza delle aspettative del fan, bizzarra figura capace di condurre un’esistenza normale all’apparenza (in alcuni casi anche no), per poi dedicare tutte le sue più recondite energie a seguire le trasferte della propria squadra o il tour del cantante che, come nessun altro, gli ha saputo spiegare la vita. Ma, come dicevamo nell’incipit, c’è un ma: guai ad avvicinarsi troppo. Purtroppo nell’era della comunicazione totale, anche a restare lontani, si rischia comunque di rimanere parecchio delusi. La scorsa settimana Gino Paoli ha sparato a zero su Mina incapace di cantare in maniera differente, secondo lui, l’elenco telefonico o “Il cielo in una stanza”. Al di là del fatto che probabilmente ha ragione, la dichiarazione è arrivata per difendere l’indifendibile, la versione della sua canzone duettata con Carla Bruni (che sta a Mina come un divano macchiato sta a Katherine Hepburn); immaginiamo lo sconcerto e la rabbia dei fan della tigre di Cremona (non risultano reazioni dei sostenitori né di Paoli, né di Carla Bruni, di cui peraltro non si riesce a trovar traccia). Appena superato lo shock, ecco Pino Daniele, che per lanciare il suo nuovo album sceglie di fare il controcorrente a tutti i costi (purtroppo per lui in buona compagnia, basta leggere i titoli di “Libero, “il Giornale”, “il Tempo” o i commenti televisivi di grandi intellettuali come Emilio fede o Bruno Vespa) dichiarando che “Saviano non dev' essere così pericoloso, altrimenti sarebbe già stato tolto di mezzo, come Falcone e Borsellino”. Immaginiamo lo sbigottimento del fan che sfogliando distrattamente il quotidiano o aprendo la sua home page mattutina, si ritrovi davanti ad una simile stronzata. Come se non bastasse, ha lì davanti a lui “Boogie boogie man” ancora incellofanato e non ha il coraggio aprirlo per riascoltare le sue amate canzoni - “Nun me scuccià”, “A me me piace o blues” - riproposte in una nuova e sconfortante versione accanto ad alcuni intollerabili duetti con Mario Biondi, Franco Battiato e proprio Mina, con cui riesce a distruggere anche “Napule è”. Se per caso l’avete comprato (o scaricato) tenetevi alla larga da quelle tracce: potrebbero essere molto pericolose, tanto da indurre la fragile psiche del seguace deluso a gesti irreparabili, come la distruzione dei primi cinque ellepi del nostro, fino ad oggi religiosamente conservati. Stia tranquillo invece Pino: riuscirà a racimolare qualche soldino anche con questo orrore e, soprattutto, dormirà sonni tranquilli: di certo lui oramai non rappresenta un pericolo e, come per Saviano, nessuno si scomoderà per toglierlo di mezzo. Certo, c’è sempre l’incognita del fan deluso che potrebbe aspettarlo fuori di casa... Je so' pazzo je so' pazzo, Si se 'ntosta 'a nervatura, Metto a tutti 'nfaccia o muro…

lunedì 22 novembre 2010

Cover e ricover


È pur vero che un paese che non conosce la sua storia, non sa costruire il suo futuro, ma ora in Italia stiamo davvero esagerando. Parliamo di musica ovviamente, perché la Storia patria siamo imbattibili nel dimenticarla, disconoscerla o ignorarla (anche per colpe non nostre, se ancora oggi il numero dei misteri di stato irrisolti o irrisolvibili è incommensurabile). In campo musicale invece non sembra esserci fine alla pubblicazione di antologie, greatest hits, raccolte di successi, best of o succedanei in forma di dischi dal vivo (peraltro ampiamente rimaneggiati in studio), spesso aumentati di un inedito, in genere uno scarto di qualche sessione precedente. Come se non bastasse, l’ultimo grido per l’asfittica vena creativa dei nostri ‘artisti’, è la cover di un brano di successo, meglio se degli anni ‘60/70, buono anche per dare un titolo ad un film, anche se si ascolta solo nei titoli di coda (qualche esempio: “Arrivederci amore ciao”, “La Prima Cosa Bella”, “Notte Prima degli Esami”). Ci troviamo di fronte ad una vera e propria realizzazione della teoria vichiana, di una storia caratterizzata da un andamento progressivo, ma non nel senso che tutto quello che viene dopo è migliore di quello che viene prima, ma solo nel senso che la storia procede, ma senza sapere bene dove andare (e quindi nel nostro caso si rivolge al passato, deturpandolo). Così al ‘corso’ (che so, “Il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano), un’umanità incapace di crescere e di rinnovarsi (i nostri musicisti e discografici) fa seguire un ricorso, inteso come regresso (Giusy Ferreri che svuota di ogni significato la stessa canzone, riducendola a jingle, a sottofondo anestetico da canticchiare alla prima occasione). Gli esempi sono innumerevoli, anche se a volte la storia non passa invano: alla versione superficialmente spensierata di “Azzurro” del molleggiato Celentano, Paolo Conte risponderà anni dopo, restituendo alla propria canzone il suo significato più autentico. E se ascoltate “How deep is your love” di Cristina Donà, vi riconcilierete anche con i Bee Gees! (Invece per la Storia con la esse maiuscola, come insegna la recente sentenza sulla strage di Piazza della Loggia, il tempo passa proprio invano…)

domenica 14 novembre 2010

Beethoven ha solo scritto musica!

E’ di questa settimana l’annuncio che un test nella città di Christchurc in Nuova Zelanda, ha definitivamente comprovato che se “gli altoparlanti diffondono le sinfonie di Mozart, i reati spariscono”. Così recita il titolo apparso su un noto quotidiano nazionale: pazienza se la notizia ricorre sui giornali più o meno ogni sei mesi (alternativamente con le mucche che fanno più latte con Giuseppe Verdi e i neonati che crescono meglio con Charlie Mingus), in concomitanza di pagine pericolosamente vuote nell’imminenza dell’ora di stampa. Poiché lo spazio da riempire era piuttosto ampio, la giornalista ha pensato bene di allungare, chiedendo il parere dell’esperto, il compositore italiano Marco Tutino, che orgogliosamente ricorda quando da direttore del Teatro Comunale di Bologna (in piena epoca Cofferati, tanto per contestualizzare) aveva diffuso musica classica dagli altoparlanti all'esterno con il risultato di allontanare dai portici tutti i gruppetti di vagabondi e punkabbestia che stazionavano lì intorno. Sempre merito di Mozart, “un tale miracolo di perfezione, di simmetrie ed equilibrio” che, evidentemente, nessun barbone è in grado di tollerare per più di dieci minuti. Purtroppo il pezzo s’interrompeva qui, senza fornire ulteriori spiegazioni. Non essendo in discussione il valore della musica del sommo Amadeus, dobbiamo dedurre che alcune categorie di cittadini (o forse sarebbe meglio definirle razze di abitanti del nostro pianeta?) sono talmente abbruttiti nell’anima da riuscire ad ascoltare solo bootleg dei Sex Pistols o interi album dei Sodom, sfuggendo, come fanno i vampiri con l’aglio, tutta la musica restante. Da qui a schedare, finalmente, le persone, oltre che per reddito e modo di vestire, anche per gusti musicali, il passo è veramente breve. Restano alcune categorie ibride per le quali l’analisi richiederà una maggior accuratezza: mia figlia di due anni, ad esempio, non tollera Gerswhin, mentre adora Otis Redding, Stevie Wonder e soprattutto Ludwig Van Beethoven; quest’ultimo, proprio come Alexander DeLarge, il protagonista di “Arancia meccanica”: ricoverarla subito o aspettare i primi sintomi?

lunedì 8 novembre 2010

Viva la Rai


Che la Rai sia ormai in fase di smobilitazione, in attesa solo di un provvedimento in stile Alitalia che la smantelli definitivamente, è cosa ormai nota da tempo (tanto che, come nota Antonio Dipollina nella sua nuova rubrica su Repubblica.it “Raiuno non ha uno straccio di programma da mandare il sabato in prima serata. Dicasi il sabato in prima serata. Tanto che stanno andando le repliche di Don Matteo”). E non ci vuole nemmeno un novello Talleyrand per capire a chi faccia comodo favorire questa deriva. Dal punto di vista musicale, l’abdicazione ai doveri di servizio pubblico è sostanzialmente già avvenuta: restano solo alcune isolate oasi in ambito radiofonico, su Radio 2 (giusto qualche concerto rock e qualche trasmissione estiva o notturna che sfugge alle attenzioni del direttore) e soprattutto Radio 3; televisivamente parlando, il panorama pencola tra seienni che cantano “I will survive” in prima serata, X-factor e un ininterrotto sottofondo stile ‘piano-bar Billionaire’. Poi c’è il fiore all’occhiello dell’azienda di viale Mazzini, il festival di Sanremo. Se ne parla quasi ininterrottamente tutto l’anno, da quando finisce, con le controversie sugli ascolti e il basso livello della musica proposta, d’estate, con le prime rivelazioni sulla conduzione, d’autunno con le prime indiscrezioni sulle partecipazioni e gli ospiti. Tutto sgocciolato con competente sapienza, tanto da far credere che l’evento esista davvero e non sia una pura proiezione mediatica che alimenta se stessa. Ovviamente si aggiunge anche qualche polemica creata ad hoc o anche involontaria: difficile capire a quale categoria appartenga l’ultima in ordine di tempo, l’ipotesi di far cantare nel corso delle serate l'inno partigiano “Bella Ciao” e quello fascista “Giovinezza”. I due titoli sono trapelati a margine della conferenza di presentazione del regolamento, con il conduttore Gianni Morandi e il direttore artistico Gianmarco Mazzi, che si sono bypartisanamente divisi i compiti. Come se non bastasse è poi arrivato l’intervento del direttore della prima rete Rai, Mauro Mazza, che si è detto d'accordo sulla scelta delle canzoni citate, aggiungendo - lasciateci immaginare su quale input - che a lui “viene in mente anche Va' pensiero perchè Sanremo deve ripercorrere la storia intera, senza censure e senza cesure”. Fortunatamente sono bastate ventiquattro ore per far rientrare l’iniziativa (sottintendo peraltro l’idea revisionista che le due canzoni abbiano lo stesso significato): segnaliamo l’invito di 'Libertà e Giustizia', l’associazione presieduta da Sandra Bonsanti con Gustavo Zagrebelsky, a spegnere Sanremo per tutta la durata del festival: “L'anno scorso i Savoia, quest'anno il Duce, è una coincidenza?".
No, è la Rai, di tutto, di più.


giovedì 4 novembre 2010

ll primo iPod che ho visto, ce l'aveva Nick Hornby.


Ci trovavamo nella hall di un albergo di Genova, era l'ottobre 2002 e non ricordo se quell'aggeggio fosse di prima (5 gb) o di seconda generazione (10 o 20 gb). L'aveva estratto dalla sua giacca, visibilmente orgoglioso, spiegandomi come funzionava e, soprattutto, facendo scorrere le sue playlist. Centinaia di canzoni dei gruppi più disparati (non ne ricordo uno, non ho scritto nemmeno un appunto, ero troppo agitato). Allora l'oggetto mi sembrò strabiliante (e in un certo senso lo è ancora), ma la cosa che più mi affascinò era l'idea di poter entrare nella vita musicale di una persona, nella sua collezione di dischi, tutta racchiusa in quei pochi centimetri, con un solo gesto. Il vecchio "dimmi cosa ascolti e ti dirò chi sei?", era lì, a disposizione di chiunque avesse voluto applicarsi ad uno studio di fondamentale significato antropologico: scrutare tra la musica racchiusa nei moderni 'musical box' (un po' come guardare dal treno nelle finestre dalle case per immaginare le vite delle persone), e scoprire se le scelte dipendano da sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Ed età ovviamente. Probabilmente avremmo solo conferme a ciò che già sappiamo: le donne ascoltano in maniera meno sistematica e ossessiva degli uomini, i giovanissimi preferiscono i singoli titoli ai cd interi, il jazz lo troveremmo solo oltre una certa età (per pudore non diciamo quale). Ma sicuramente anche qualche sorpresa: quell'adolescente con lo zaino da dodici chili forse sta ascoltando "Blackbird"; e la ragazzina che incrociamo in ascensore, per sentirsi meno a disagio nel suo corpo, lascia scorrere a tutto volume "Stairway to heaven". In realtà i saggi e i libri sull'argomento iPod, da subito, hanno preferito concentrarsi su consigli e suggerimenti per l'uso: pagine e pagine di playlist (le trenta migliori canzoni dei Nirvana, l'elenco dei dieci brani che parlano di Dallas, le venti hit dell'estate del '67) che, chissà poi perché, il lettore dovrebbe replicare pedissequamente nel suo lettore mp3, con il solito presupposto che sia incapace di intendere e di volere da solo. Ulteriore testimonianza di come questi siano tempi di egotismo estremo, in cui nessuno sembra essere interessato alla scoperta o alla conoscenza dell'altro, ma solo alla sterile affermazione pavoneggiata del sé. Se poi la tecnologia e i media contemporanei favoriscano questa tendenza, questo è un altro discorso..

lunedì 25 ottobre 2010

Music book


Se fate parte di quella porzione ristretta della popolazione italiana alla quale piace leggere e se vi piace farlo ascoltando musica, già saprete che ci sono libri che vi permettono di scegliere da soli, sbizzarrendovi in abbinamenti a volte arditi, ma funzionali (che so, Italo Calvino e la serie “ambient” di Brian Eno, Georges Simenon e Nick Drake); altri invece, portano con sé, quasi ineluttabilmente, il genere o addirittura i titoli da suonare durante la lettura (per Jean Claude Izzo come fare a meno di “Sketches of Spain” di Miles Davis, per Jonathan Coe un qualunque live dei Clash, per Nick Hornby non è il caso nemmeno di parlarne). Altri ancora, richiedono invece il silenzio e se proprio volete far girare qualcosa sul vostro lettore cd, potete sempre ricorrere ad un loop dei 4 minuti e trentatrè di “Silence” di John Cage, magari insieme ai diciotto secondi di “18 Sekúndur Fyrir Solaruppras” dei Sigur Ros, altrettanto silenti. Proprio partendo da quest’ultimo brano, al quale ruba il titolo, si snoda “Diciotto secondi all’alba” di Giorgio Scianna (Einaudi), la storia di un giovane avvocato, Edoardo Gregotti, con un avvenire segnato, ma apparentemente invidiabile: lo studio associato di papà, una bella fidanzata, amici che tutti vorrebbero avere. Con questo libro ci troviamo a metà strada: in parte la playlist è segnata dalle preferenze del protagonista, Sigur Ros ovviamente e Coldplay; poi dopo l’incontro con una violoncellista russa che vive a Milano e si guadagna da vivere suonando qualunque cosa, per Edoardo non resterà che riempirsi la vita con la colonna sonora del suo iPod - “quattro, cinque ore al giorno, sempre la sera, dalla cena a quando spegnevo la luce” - di cui proviamo a immaginare i titoli: forse gli Who di “Who’s next”, forse i Black Mountain dei primi due album o gli XX. Ma scorrendo le pagine di un romanzo che sceglie di raccontare, magistralmente, la nostra incapacità di vivere, è il silenzio a prendere il sopravvento. Almeno fino ai titoli di coda, quando si chiude il libro e se ne ripercorrono le vicende, immaginando cosa avremmo fatto o detto noi in quella situazione: in questo caso ci sentiamo di consigliare il piano solo di “Metarphosis one” di Philiph Glass. Buona lettura e buon ascolto.

lunedì 11 ottobre 2010

Un buon ufficio stampa


“Niente sarà più come prima”.
Certo, in questa settimana sono stati assegnati un paio di premi Nobel, Silvio Berlusconi è andato a pesca con Vladimir Putin, la nazionale italiana di calcio ha pareggiato 0 a 0 con l’Irlanda del nord. Ma la frase non si riferisce a nessuno di questi avvenimenti, bensì a una delle confessioni più sconvolgenti degli ultimi anni per l’intero paese: “Il 20 novembre 1995 ho iniziato a scrivere un diario. Ho deciso che lo pubblicherò il 20 ottobre 2010." Con una sobria intervista a “Repubblica” e un servizio di copertina a “Vanity fair”, Tiziano Ferro ha finalmente ammesso, non sappiamo se anche a stesso, di essere omosessuale. Mara Maionchi, prima scopritrice del talento di Ferro, ha dichiarato di non essere stata al corrente dei gusti sessuali del suo protegé, ma soprattutto di essere certa che il gesto aiuterà tanti ragazzi. Dello stesso parere Paolo Patanè, presidente nazionale di Arcigay, che ha commentato il coming out come “una ventata di novità nell'ipocrisia che porta moltissimi omosessuali a nascondersi e a praticare la doppia vita”. Addirittura, anche Cesare Prandelli nella conferenza stampa alla vigilia del match di cui sopra, ad una domanda sul’argomento ha risposto: “aspettiamo un po', ci saranno delle notizie... qualche calciatore farà outing". Davvero niente sarà più come prima e non possiamo che rendere onore al cantante di Latina: certo, ci sarebbe piaciuto che il palesamento non fosse proprio concomitante alla pubblicazione del libro autobiografico dall’appassionante titolo “Trent’anni e una chiacchierata con papà”; e che dire dell’imminente uscita in edicola di una raccolta dei 4 cd in studio del cantante realizzati tra il 2001 e il 2008, con l'aggiunta del DVD “Alla mia età - Live in Rome”, corredati da un volume e da un cofanetto? Niente sarà più come prima ma in fondo, in fondo, sembra essere sempre la solita storia.

domenica 3 ottobre 2010

Rapper's delight


Il nuovo disco di Fabri Fibra, “Controcultura” è al quinto posto degli album più scaricati da iTunes, giusto una posizione dietro l’ennesima raccolta rimasterizzata di vecchie canzoni di Guccini. Un bizzarro passaggio di consegne tra il repertorio impegnato dei ‘cantautori’ - così si identificava negli anni ’70 la musica di De André, Dalla, Venditti (anche lui, che ci crediate o no) e De Gregori - e la musica ‘ribelle’ di oggi. Nel momento in cui la canzone italiana ha deciso di limitarsi a parlare di amore (materno, paterno, filiale, etero ed omo), abdicando ad una parte di realtà sempre più complessa e sfuggente, la protesta in musica è diventata appannaggio del rap e dal reggae. Ci ha scritto un bell’articolo Carlo Moretti su “Repubblica” la settimana scorsa, citando, oltre a Fabrizio Tarducci da Senigallia, anche i nomi di Skardy, già voce dei Pitura Freska, degli ‘anziani’ Sud Sound System, di Mama Marjas. Certo è che la musica non ha più - almeno in questo momento storico - la forza dirompente che ebbe negli anni ’60, quando Crosby, Stills, Nash & Young cantavano “We can change the world”; e nemmeno è più possibile credere alla “musica ribelle che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle”. Però fa bene Fabri Fibra a provarci, anche rinnegando i padri ("Io coi vostri testi ortodossi, mi ci pulisco il culo come Bossi, ma quale cantautore? Vaffanculo al rallentatore"), anche se forse prendersi un po’ meno sul serio (“io col Rap faccio il Popper”; immagino Karl, che nel caso si sta rivoltando nella tomba) gli farebbe certamente bene. Di sicuro, nella prossima tournée, non correrà il rischio che nel 1977 spinse De Gregori a ritirarsi dalle scene per un lungo periodo, dopo essere stato duramente contestato al Palalido di Milano da un gruppo extraparlamentare della sinistra, con l’accusa di di servirsi delle sue canzoni di temi politici per arricchirsi. Altri tempi. Oggi il rap lo usa addirittura Famiglia Cristiana che, per lanciare l'edizione tascabile del Libro dei Libri al prezzo di 7,90, euro, propone nelle radio e via internet “Paroladidio”, un rap composto ed eseguito da anonimi professionisti in ossequio agli altrettanto anonimi autori delle Sacre Scritture. L’incipit è dal Libro dell'Esodo "Io sono colui che sono, questo è il mio nome per sempre, e questo è il mio ricordo". Anche qui ci si prende molto sul serio, ma meglio non rimproverarglielo…

lunedì 27 settembre 2010

Autunno caldo e non solo per i lavoratori del Carlo Felice di Genova, che entro il 27settembre dovranno far pervenire una risposta formale in merito alla proposta di cassa integrazione, l'unica alternativa al fallimento. Dopo aver deciso (?) del loro futuro, la sera stessa potranno consolarsi con un evento degno, il recupero della data precedentemente annullata di "Attenti a Quei 2", impedibile esibizione di Luca Barbarossa e Neri Marcorè. Dal giorno dopo, formalmente liberi di scorazzare per l'Italia e di impiegare il loro tempo libero in un proficuo periodo di aggiornamento, potranno scegliere tra un bel carnet di proposte: lascerei perdere De Andrè, anche nella rilettura di Danilo Rea ("A Tribute to", martedì 28 all'Auditorium Parco della Musica di Roma), così come "Sei Zero", il progetto live in cui Renato Fiacchini ripercorre la carriera artistica del suo alter Zero (a Roma dal 29 settembre al 9 ottobre). In particolare mi sento di sconsigliare la prima data, alla quale, pare, dovrebbe partecipare Loredana Bertè, che in occasione del suo recente compleanno, ha dichiarato avere sempre le più belle gambe della musica (non sappiamo se italiana o internazionale). Meglio orientarsi semmai verso l'arpa di Joanna Newsom, fresca di un triplo album, "Have One On Me", di cui si è ampiamente discusso su questo sito (lunedì 27 al Teatro Dal Verme di Milano, martedì 28 all'Auditorium Parco della Musica di Roma). Per i nostalgici rockettari anni '70 abbiamo solo i canadesi Black Mountain (29 settembre alla Salumeria della Musica di Milano) con il loro nuovo disco "Wilderness Heart". Per questa settimana poc'altro. Meglio guardare avanti e appuntarsi la data del 21 ottobre, sempre a Milano al teatro Dal Verme, Steve Wynn con il nuovo album in uscita (insieme a lui il violinista degli Afterhours, Rodrigo D'Erasmo); e ancora più in là, cancellare ogni impegno per lunedì 8 novembre alle ore 21 al teatro Manzoni di Milano, per la "Masada Marathon - The Book Of Angels" con John Zorn e una pletora di ospiti (da Medeski, Martin & Wood a Marc Ribot, Jamie Saft, Dave Douglas, Erik Friedlander ...). Consigliatissimo anche ai vertici del Carlo Felice, tanto per farsi un'idea della musica che gira intorno...

lunedì 20 settembre 2010

Fattore sconosciuto


È ricominciata la grande musica in tv, che per nostra mamma RAI significa principalmente “X factor”. No, non vogliamo parlare di Elio, né scoprire perché sia finito al fianco di Anna Tatangelo, Enrico Ruggeri e Mara Maionchi. Problemi (e soldi) suoi. Sembra molto più interessante provare a capire perché il clamore mediatico che accompagna la trasmissione di punta di Rai 2 sia inversamente proporzionale agli ascolti. Dopo una prima puntata in cui si era trovato contro niente meno che la partita tra l’Italia e le Far Oer e una replica del Festival del circo di Montecarlo, solo per rimanere alle due consorelle di viale Mazzini, raggiungendo 3.284.000 spettatori con un rispettabile share del 17,02%, già dalla seconda, il programma è tornato agli asfittici ascolti della precedente edizione. Per intenderci mercoledì scorso Facchinetti & c. hanno totalizzato 2.479.000 astanti con l’11,09% di share: per intenderci meglio, “Un posto al sole”, la soap delle 20.30 in onda alle 20.30 su Rai 3, al suo quindicesimo anno di vita, ha totalizzato 2.385.000 (8,90%); e Ballarò, in onda in contemporanea, arriva a 3.474.000 contatti con il 13,72%. Eppure sui giornali la polemica sull’eliminazione di Sofia Buconi regna sovrana e non passa giorno che qualche pretestuosa diatriba cerchi di rinvigorire gli scarni esiti d’ascolto. Se esistesse poi una speciale classifica che dividesse il numero degli spettatori per il costo della trasmissione, non esistiamo a credere che l’esito per X Factor sarebbe catastrofico. Probabilmente ogni puntata dispone di un budget con il quale si potrebbe provare a proporre un concerto (di medio livello, tipo Eels o Antony tanto per fare due nomi) in prima serata. Ma così i soldi del servizio pubblico non finirebbero nelle tasche dei soliti noti. E poi vuoi mettere il brivido del televoto truccato…

lunedì 6 settembre 2010

Le notti bianche


La programmazione culturale e in particolar modo musicale del Comune di Genova sfiora addirittura il ridicolo. Come ogni anno, anche nel 2010 Palazzo Tursi ha ridotto i contributi a festival e associazioni che da decenni provano a fare qualcosa di sensato sul territorio. Con i soldi risparmiati, oltre a pagare laute e inspiegabili consulenze, anche per quest’anno ha organizzato una prestigiosa edizione della Notte Bianca confermandosi, insieme a Castel del Piano, l’unica città dell’Europa occidentale ad aver mantenuto in vita una simile manifestazione. Per la gioia dei commercianti, che per una notte potranno vendere fiumi di birra al di fuori della normale regolamentazione, i cittadini potranno assistere al Porto Antico, in occasione del 40° Anniversario della Comunità San Benedetto, ad una serata a dir poco variegata, condotta da Vladimir Luxuria, cui parteciperanno Roy Paci e Aretuska, Nicolò Fabi, Tonino Carotone, Teresa De Sio. Per chi soffre di nostalgia in Piazza De Ferrari si torna agli anni ’60, non quelli della protesta in piazza al governo Tambroni, ma nientemeno che al Beat del Piper e di Bandiera Gialla, con una serata introdotta 
dal simpatico Mario Luzzatto Fegiz
 con un concerto dello scongelato Gianni Pettenati, seguito da Patty Pravo
 e da Shel Shapiro. Infine, ciliegina finale, in piazza della Vittoria l’evento clou, il concerto di Lucio Dalla e Francesco De Gregori (che, sia detto per inciso e senza entrare nel merito artistico, sono alla centesima data di questo tour per nostalgici: solo in questo mese a Udine, Brescia, Bologna, Milano, Rieti e Padova). Con un simile programma (manca solo il tiro alla fune; ma non si è trovato proprio niente di meglio: che so, un gruppo rock degli ultimi vent’anni?) il successo non potrà che essere assicurato. A cose fatte si snoccioleranno le solite cifre esorbitanti, limitandosi al dato delle presenze (ovviamente presunte), sorvolando sull’ipotetica gratuità degli eventi (il pagamento per la comunità è solo differito) e sui cachet (appena un manager sente nominare la Notte tende a sfregarsi le mani ripetutamente). Ma a chi giova infine, questo obsoleto sistema di concepire l’intervento pubblico, con la musica degradata a una rafferma brioche da dare al popolo in risposta alla sua richiesta di semplice pane?

lunedì 30 agosto 2010

Un'estate fa


L’estate volge al termine, le località di villeggiatura sono percorse dagli ultimi vacanzieri, zombie che si aggirano, la testa già al lavoro, tra le bancarelle (con gli hippy che vendono collanine che dialogano con l’indiano e i suoi gioielli: “la crisi si sente, non si è venduto niente quest’anno”), mentre le città si ripopolano inesorabilmente. I tour estivi si trascinano stancamente in attesa della rentrée, tutti si preparano ad un autunno forse più caldo dell’estate. L’agosto musicale 2010 ha esploso i suoi ultimi botti con Antonello Venditti che ha finalmente ammesso in un’intervista al Corriere della Sera del 19 agosto di aver visto, all’età di cinque o sei anni, un disco volante: “Un disco grande, avrà avuto un diametro di dieci metri. Nella parte inferiore c'erano tre appendici a forma di ventosa, mentre in alto, dove era visibile una cupoletta che assomigliava a un grande bitorzolo, si notava un oblò...”. Qualche giorno dopo gli ha risposto da par suo Gianna Nannini, annunciando a 54 anni (o 56 dicono i bene informati) di aspettare un figlio (se c’è una relazione tra i due avvenimenti trovatela voi). Per riprendersi non resta che un tuffo nel passato ricordando estati ben più propizie di questa: il 23 agosto 1994 usciva “Grace”, l’unico album di Jeff Buckley (e l’ep precedente, il “Live at Sin-è”, era stato registrato nell’agosto ’93), probabilmente il più importante disco dell’ultimo decennio del secolo scorso. Diciannove anni prima e due giorni dopo, il 25 agosto 1975, sempre la Columbia pubblicava il terzo ellepi di Bruce Springsteen, “Born to run”, trentanove minuti e ventidue secondi che avrebbero consegnato il nostro alla Storia. Per superare la depressione del temporale estivo che sigillerà definitivamente la stagione, vi consigliamo le inevitabili de-luxe edition di entrambi i titoli. Per Buckley una versione estesa del disco originale con l'aggiunta di un cd (che comprende tra l’altro "Forget Her", originariamente esclusa da Buckley per motivi sconosciuti) e un dvd; per il Boss il video di un concerto all’Hammersmith Odeon e un documentario - "Wings For Wheels: The Making of Born to Run" con interviste e materiale d’archivio. Aspettando il 16 novembre per “The Promise: The Darkness on the Edge of Town Story Unveiled” , due cd con 21 canzoni inedite dalle sessioni del secondo disco, uscito l’11 settembre 1973. Ma quella è un’altra data…

lunedì 23 agosto 2010


"Dio è morto. E anch'io non mi sento tanto bene". Sembrava solo una straordinaria battuta di Woody Allen e invece da venerdì 20 agosto, almeno per l'Italia, quella frase è diventata una lungimirante profezia. Da quel giorno, infatti, con il Corriere della Sera o Sorrisi e Canzoni Tv è possibile acquistare con il solito sovrapprezzo "Tutti Nomadi": si tratta di 8 raccolte inedite in cd, 2 dvd live, il tutto corredato da10 esclusivi booklet firmati da Beppe Carletti e Mario Luzzatto Fegiz. Ignoriamo se le raccolte siano inedite solo nella forma - in pratica nella compilazione - o anche nel contenuto: il lancio pubblicitario in proposito è ovviamente ambiguo; ma tant'è, la cosa che più colpisce, è che lo storico quotidiano della borghesia italiana e la rivista ammiraglia della potenza editoriale Mondadori (di cui forse non è superfluo ricordare la clamorosa legge 'ad aziendam' di cui si parla in questi giorni), non siano minimamente turbati dalla convivenza, seppur in allegato, con una da delle icone più classiche della sinistra. A qualcuno il discorso sarà già venuto a noia: ancora con queste divisioni ("che cos'è la destra, che cos'è la sinistra" cantava uno che avendo sposato Ombretta Colli di contraddizioni se ne intendeva), in un'epoca di globalizzazione, di post-tutto, ancora un discorso così 'retro', legato a schemi ormai vetusti e inservibili? Avrete notato che non siamo stupiti dal fatto che i Nomadi abbiano deciso di proporre stancamente il loro repertorio beat-gucciniano in salsa centro sociale con due testate così distanti dal loro vissuto e dal loro raccontato: da qualche anno, dopo la scomparsa della sinistra o dopo l'era Veltroni (che ci sia un legame?), le icone tutte, si sono limitate a tirare a campare, cercando di mettere insieme, ove possibile, il pranzo con la cena. Quello che colpisce ancora una volta è il pragmatismo del capitale (c minuscola please) che non si perita di guadagnare stampando "Auschwitz" e "Dio è morto" con tanto di commento dell'unico membro originario rimasto e del critico italiano dell'establishment. Va tutto bene, per carità, ma almeno "Noi non ci saremo".

lunedì 16 agosto 2010

Racconto di Ferragosto.

Interno giorno. Piove. Il salotto di una casa in una località di mare. La televisione è accesa, a volume basso, su un canale che trasmette video musicali a rotazione. Sul divano un uomo di circa sessant’anni con un ragazzino di circa dodici. In mano ha un vecchio ellepi di Simon & Garfunkel, “Sounds Of Silence”.
(Uomo) - C’era un tempo in cui la musica si ascoltava con questi grandi dischi neri, vedi? Erano incisi su due lati e ogni facciata durava pià o meno àààventi minuti. Il nonno ne aveva tanti, una libreria piena e di ogni genere. Rock, jazz, anche musica classica. Poi quando è morta la nonna e abbiamo venduto la casa, li ho regalati tutti a un amico. Al tuo papà la musica non è mai interessata più di tanto e mi ha detto che in casa non aveva posto e non aveva nemmeno più il giradischi.
(Bambino) - Che cos’è un giradischi?
(U) - Era l’apparecchio con il quale si ascoltavano i dischi.
(R) - Aveva le playlist?
(U) - No, ogni volta che mettevi un disco lo sentivi per intero. Oppure sentivi una canzone, poi lo mettevi a posto e ne prendevi un altro
(R) - Così ci mettevi un sacco di tempo però.
(U) - No, una canzone durava esattamente quanto adesso. O forse noi avevamo più tempo, non so.
(R) - Ma come facevi ad ascoltarli nell’iPod o nel telefonino?
(U) - L’iPod non c’era e nemmeno i telefonini; e se avessi detto a qualcuno di ascoltare la musica per telefono ti avrebbe preso per pazzo. La musica si ascoltava a casa, con l’impianto hi-fi, magari insieme agli amici.
(R) - E come facevi a prestare la musica ai tuoi amici? Quel robo lì non ci sta mica in una chiavetta usb. E nemmeno puoi spedirlo col bluetooth.
(U) - Si prestava il disco; a dire il vero io non li prestavo per paura che non me li restituissero o me li rovinassero.
(R) - Rovinassero?
(U) - Sì, il disco era piuttosto delicato e se si graffiava poi si incantava o saltava addirittura. Però potevi registrarglielo su una cassetta?
(R) - Una cassetta?
(U) - Già, non hai visto mai nemmeno una cassetta vero? Era una piccola scatola di plastica, con del nastro magnetico…
(R) - Scusa, nonno, mi passi il telecomando?
Scende dal divano e alza il volume della tv. Scorre il video di “Alejandro” di Lady Gaga.

lunedì 9 agosto 2010


Dopo che Rosanna Fratello ha finalmente ammesso “Sì, andai a cena con Aldo Moro, amava la musica, apprezzava le mie canzoni e se mi manifestò la sua ammirazione lo fece con la massima discrezione”, possiamo tornare alle comuni occupazioni proprie di noi comuni mortali. Ad agosto si sa, il mondo della musica tira il fiato, almeno dal punto di vista discografico; impazzano i concerti e nelle varie analisi non si capisce se quest’anno siano andati peggio o meglio (“colpa dei Mondiali” dice uno, “c’è la crisi” risponde l’altro). “Repubblica” ha dato ampio spazio all’argomento sfruttando l’occasione della data torinese degli U2, coperta in maniera sospetta (c’erano ancora biglietti …) con tre articoli in successione e addirittura triplo paginone a firma di Roberto Saviano. D’altra parte l’incontro tra chi sta tentando di aumentare la percentuale dei fondi erogati per gli aiuti umanitari al Terzo Mondo e la “Voce che si oppone al Potere” (cito Dal Lago, ma consiglio vivamente di leggerlo: “Eroi di carta” pubblicato da “il Manifesto”) non poteva meritare di meno. La conversazione sfiora vette altissime: "Ho proprio la sensazione che l'Italia sia come un luogo sacro, adoro i particolari italiani: la famiglia, l'aroma del caffé, il collo di una donna, ad esempio” dice il Bardo di Dublino. “Cerco di spiegare perché tutto è così ideologico, perché in Italia spesso sembra esserci una battaglia tra contrade, dove bisogna pensarla in serie, e quasi mai c'è un confronto sui fatti. La cappa delle ideologie anestetizza ogni dialogo come se compromettesse il futuro” risponde la nostra icona. Poi passa Edge che lo ringrazia per essere venuto e la conversazione volge al termine. I due si abbracciano e Saviano torna in auto dove la scorta canticchia "One", la sua preferita. Tutto molto commovente. Noi ci limitiamo a segnalare l’altra data italiana del 360° tour, l’8 ottobre prossimo a Roma: i prezzi sono gli stessi di Torino (“Gli U2 hanno un piccolo problema. Devono dimostrare ogni volta di essere quello che la storia rock degli ultimi decenni gli ha assegnato come ruolo, ovvero la più grande rock band del mondo” scrive Castaldo) e cioè dai 34,50 euro del Secondo Settore Distinti Sud Ovest Numerato ai 287,50 del Prato Red Zone. Avete letto bene: anche lui in fondo, è un uomo e non un santo. “With or without youuuuuuu”….

lunedì 2 agosto 2010

Per non dimenticare



Lunedì 2 agosto 2010; Radio 24 invia un giornalista alla stazione di Bologna per domandare ai giovani di passaggio che cosa sia accaduto in quello stesso giorno, in quello stesso luogo, esattamente trent’anni fa; le risposte sono le più disparate. Una colpisce in particolare: “esce il primo album dei Saxon”. Non so se il ragazzo stia facendo lo spiritoso, ma la sua frase è davvero inquietante. Certo, lui magari all’epoca non era ancora nato e quindi non è solamente un problema di mancanza di memoria storica delle nuove generazioni. A scuola non gliel’hanno insegnato (anche ai nostri tempi si arrivava a stento alla prima guerra mondiale d’altra parte e non credo che le varie riforme succedutesi abbiano migliorato la situazione; peraltro la materia non è mai stata nel programma di studio). Non sorprende tanto l’ignoranza, quanto la mancanza di curiosità, se non proprio il completo disinteresse verso la conoscenza del passato, condiviso o meno. Eppure gli strumenti ci sono e sono tutti a portata di mano: anche se la consultazione di ponderosi e polverosi tomi è stata ormai abbandonata, una qualunque ricerca su Google risolverebbe in pochi minuti ogni tipo di lacuna. Certo, poi va tutto verificato perché il web non è la Bibbia, però insomma, un minimo d’iniziativa sarebbe già un segnale e invece niente: “il 2 agosto 1980 esce il primo album dei Saxon”! Allora riproviamo a mettere ordine: il primo e omonimo album dei Saxon esce il 21 maggio 1979; il 5 maggio 1980 esce il secondo “Wheels of Steel”; quanto al due agosto 1980 se nessuno dei 22 ministri, 9 sottosegretari di Stato alla Presidenza del Consiglio, 4 vice ministri, 25 sottosegretari, riesce ad essere presente alla commemorazione di un strage fascista e di stato come quella della stazione di Bologna, ma perché un ragazzo di vent’anni che ascolta obsoleto heavy metal dovrebbe sapere che cos’è accaduto?

domenica 18 luglio 2010

Scusate il ritardo


Sono poche le cose che ci mettono di fronte a tutti o quasi gli errori commessi nel corso della nostra esistenza: una di queste è il trasloco. Poiché qui si parla principalmente di musica, limiteremo a questo campo la nostra analisi. Mentre si cominciano a sigillare i primi cartoni di lp e cd, si prendono in mano, con estrema delicatezza, i dischi che hanno segnato la nostra giovinezza: che so, “A love supreme” di John Coltrane, “Déjà vu” di Crosby, Stills, Nash & Young, “Venus and Mars” degli Wings. Proprio guardando la copertina di quest’ultimo - una palla da biliardo gialla e una rossa - ci si comincia a porre delle domande: in quale modo questo disco ha segnato la nostra giovinezza e come mai si trova ancora qui? Ma non c’è tempo di rispondere, bisogna continuare a inscatolare. Allora si passa velocemente ai dischi inutili (impossibile fare una lista), ai dischi ancora sigillati (c’è l’ultimo Micah P. Hinson, ma anche “The end” di Nico), a quelli ascoltati una volta e mai più (Attila Zoller per esempio, un chitarrista ungherese scomparso nel 1998 e da allora ovviamente rivalutato; mi annoto mentalmente di risentirlo). La prima riflessione è che se avessimo comprato metà dei titoli che infestano il nostro nuovo appartamento e se di questi ne avessimo ascoltato attentamente almeno la metà, saremmo sicuramente uomini migliori. A corollario di questa profonda speculazione sorge spontanea una domanda: perché? (Gli americani avrebbero scritto Why? e fa tutto un altro effetto.) Al momento di impacchettare con il bollicinato l’adorato preamplificatore a valvole, qualche risposta uno prova anche a darsela: amore per la musica, ansia di possesso, volontà di potenza (nel più puro prospettivismo nietzscheano). Ma nessuna sembra cogliere in pieno il viluppo di sentimenti e pulsioni che spingono all’incontrollabile desiderio di acquistare il ‘nuovo’ live di Otis Redding per il gusto di avere i tre set completi di quel concerto al Whisky A Go-Go del 1967. Non resta che arrivare nella casa nuova, rimontare in fretta l’impianto, scartocciare tutto e mettere sul giradischi l’infinito “The freewheelin’ Bob Dylan”: “The answer my friend, is blowin in the wind”.

lunedì 21 giugno 2010

Musica in una notte d'estate


Nei buchi del palinsesto estivo (tra un Francia-Messico che fa il 35% di share e "Un Posto al sole" che resiste con il suo dignitoso 8%), ecco riapparire la musica: non illudetevi, non si parla di rock o jazz, banditi da tempo dai canali generalisti, bensì della lirica spiegata al popolo (su Rai 1 in prima serata con l'imbarazzante "Tosca" di Lucio Dalla e giorni dopo con l'Antonellona Clerici in prima serata che sdottora su "Madama Butterfly", "Il trovatore", "Turandot" e "Aida", tutta roba da far chiedere a Verdi e Puccini la cittadinanza tedesca) o con i tre appuntamenti dei favolosi Wind Music Awards condotti da Paola Perego. Confessiamo di aver perso i primi due capitoli della saga; il terzo lo abbiamo scoperto per caso, al termine di Uruguay – Sudafrica (32,40%) quando, durante un round del secondo sport nazionale maschile, lo scanalamento selvaggio, siamo rimasti abbacinati dall'immagine di un simil-Michael Jackson (che ricordava invero un triste Pulcinella, in cerca di qualche spicciolo) sbalzato nel bel mezzo dell'Arena di Verona. Non ci eravamo ancora ripresi dallo choc ed ecco apparire una coppia che danza, senza alcun tentativo di apparire in sintonia con la musica, con passi che vanno dal tango al rock 'n' roll. Sullo sfondo, all'improvviso, si erge lui, il BerryUait de noartri (ma lui si sente più vicino ad Isaac Hayes), Mario Biondi, uno che ha fatto da corista per gente come Fred Bongusto, Peppino Di Capri, Califano, Fiorello. Aguzziamo le orecchie per cercar di capire cosa stia biascicando con la sua voce che tanto piace alla gente che piace. Ci viene in aiuto un sottotitolo che conferma il sospetto: si tratta di "Rock with you", un singolo di Jackson (ecco spiegata la controfigura) tratto da "Off the wall". Il divino trascina la sua voce stancamente, ma con aria ispirata e distaccata. Con uno sforzo sovraumano riusciamo a schiacciare il telecomando. Post scriptum: questo articolo è stato scritto prima che andasse in onda "Una voce per Padre Pio", domenica 20 giugno su Rai 1, trasmissione presentata da Massimo Giletti e Alessandra Barzaghi con la partecipazione straordinaria di Emanuele Filiberto. Tra i cantanti partecipanti Valerio Scanu, Marco Carta, Albano, Ivana Spagna e Michael Sembello (quello di "Maniac", dal film "Flashdance"), che dopo una visita a San Giovanni Rotondo ha scritto per Padre Pio l'inedita "Solitary Man" e per la prima volta la eseguirà in tv. Nemmeno un miracolo salverà la musica in TV.

lunedì 14 giugno 2010


Sono iniziati i Mondiali, inutile cercare di ignorarlo: ogni quattro anni arrivano su maxi-schermi all’aperto (‘lights’ in Duomo a Milano su indicazione del sindaco Moratti, cioè a volume basso e senza esultare troppo; no comment) e su maxi-schermi ormai anche nel salotto di casa; come non bastasse, nella speranza di cavare qualche soldo ulteriore, si portano appresso una canzone, pomposamente definito inno, buono da cantare per un mese o per un’estate. Indimenticabili i precedenti: per Argentina ’78 si era scomodato Ennio Morricone, un pool di esperti aveva partorito il titolo, “El mundial”: nessun ricordo tra i viventi. Per Spagna ’82, dopo un convegno indetto ad hoc, ancora “El mundial”, questa volta interpretata da Placido Domingo, doppiata in lingua italiana dal reuccio Claudio Villa. Anche qui nessuna reminiscenza palpabile. Per Messico ’86, ormai sfiniti dalla lingua spagnola, si passa all’inglese di Stephanie Lawrence con “A Special kind of hero”: inutile dilungarsi in commenti. A Italia ’90 il bizzarro trio Moroder - Bennato - Nannini ci consegna la spossante “Un’estate italiana”; anche qui english version, “To be number one”, cantata nientemeno che dai Giorgio Moroder Project. Due arrangiamenti anche per ‘Gloryland’, l’inno ufficiale di USA ‘94: una strumentale eseguita dalla project-band Glory, l’altra da Daryl Hall. Per Francia ’98 si ricorre a Jean-Michel Jarre e Tetsuya Komuro con la vocalist Olivia; ma ‘Together now’ nell’immaginario collettivo è surclassata dal tormentone anglo-latino di Ricky Martin, “The cup of life”/“La copa de la vida”. Ancora per pochi intimi “Anthem”, l’inno ufficiale dei mondiali in Corea del Sud e Giappone del 2002, nonostante la firma di Vangelis. Doppio titolo per Germania 2006: “The Time of Our Lives” cantato da Toni Braxton e dal quartetto vocale Il Divo, gruppo che porta nel nome il germe della sua dissoluzione; e “Celebrate the Day” del celeberrimo musicista tedesco Herbert Grönemeyer, con il contributo vocale di Amadou e Mariam. Anche qui brani non pervenuti. Ed eccoci al Sudafrica con Shakira e “Waka Waka” (tanto per evocare “Pata Pata”); su quest’ultima si è preventivamente pronunciato Antonello Venditti che sul magazine del “Corriere della Sera” del 10 giugno, chiamato in causa per la sua esperienza sul campo (subito rinnegata nel corso dell‘articolo: “io di inni non ne ho mai scritti con intenzione”, né “Roma Roma”, né “Grazie Roma”) segnala il suo disagio di fronte alla scelta di una cantante colombiana. Lui avrebbe usato la voce di Miriam Makeba (da morta), magari chiedendo a Jonny Clag (sic) di comporre un brano. Immaginiamo parlasse di Johnny Clegg, ma non si può pretendere tanto da uno che guarderà i mondiali nel giardinetto della sua casa a Trastevere, come fa di consueto “dagli anni di piombo, quando il calcio era la droga del popolo” e che canterà “Fratelli d’Italia non con la voce, ma dentro il cuore, perché è così che si cantano gli inni”. Concetti profondi, che non ci stupiremmo di trovare nel prossimo successo dell’Antonello nostro. Da cantare dentro il cuore, ovviamente.

mercoledì 9 giugno 2010


“Il destino prenderà la forma di una lettera con l’intestazione del Curtis institute, arrivata nella casella postale dei Waymon un mattino del 1950 (…) Non c’era bisogno di chiedere cosa contenesse. Lo capirono quando Eunice cercò i loro sguardi, alzando gli occhi dal pezzo di carta e riportò le braccia lungo i fianchi. Gli occhi persi, mormorò che era impossibile, poi lentamente, porgendo il pezzo di carta a chi la voleva, disse «Mi hanno scartata»”. Eunice ha 17 anni, su di lei erano riposte le speranze della sua famiglia, della comunità di colore del paese dove viveva, della maestra di pianoforte e della donna - bianca - che aveva creato un fondo economico di sostegno per la realizzazione di un sogno: trasformare una ragazzina timida e introversa, ma straordinariamente dotata per la musica, nella prima concertista classica americana di colore. Il fallimento ha un sapore amaro, tanto più quando le aspettative non riguardano solo la tua persona, ma addirittura un popolo e soprattutto se sei così giovane e indifesa. “Lei non conosce la sua bellezza, pensa che la sua pelle scura, non sia degna di gloria. Se avesse potuto danzare nuda, sotto una palma e vedere una sua immagine, riflessa nel fiume, saprebbe che non è così. Ma non ci sono palme per strada, e l’acqua sporca dei piatti da lavare, non riflette immagini”. A volte però i miracoli avvengono: dove finisce la vicenda di Eunice Waymon, inizia la storia di Nina Simone (pseudonimo scelto in onore di Simone Signoret), superbamente raccontata da David Brun-Lambert in un libro - Nina Simone. Una vita - pubblicato nel 2008 da Kowalski e ora riedito da Feltrinelli. Da leggere tutto d’un fiato, con l’inestimabile colonna sonora dei suoi dischi: noi vi consigliamo “Nina Simone and piano”, inciso a New York tra il settembre e l’ottobre 1968, quello per il quale, come dichiarò in un’intervista del 1999, avrebbe voluto essere ricordata.

lunedì 24 maggio 2010

Una chitarra cento illusioni


Nel gennaio scorso le Poste britanniche hanno deciso di ricordare alcuni dischi tra i più popolari degli ultimi 40 anni. La scelta, che ha privilegiato l'aspetto grafico e le copertine (almeno crediamo, visti i titoli) è caduta su "The Division Bell" (Pink Floyd), "Parklife" (Blur), "London Calling" (The Clash), "Led Zeppelin IV" (Led Zeppelin), "Power, Corruption & Lies" (New Order), Screamadelica" (Primal Scream), Let It Bleed" (Rolling Stones), "A Rush Of Blood To The Head" (Coldplay), "The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars" (David Bowie), "Tubular Bells" (Mike Oldfield). Per una volta le spesso vituperate Poste Italiane erano arrivate decisamente prima: a novembre 2009, in occasione del Festival Internazionale della Filatelia, in merito a una non meglio precisata Giornata della Musica, avevano emesso tre francobolli celebrativi dedicati a Luciano Pavarotti (€ 0.65), Mino Reitano (€ 1.00), Nino Rota (€ 1.50). Anche in questo caso, ignoti i motivi della scelta. Proviamo a intuire: il primo dato evidente è che sono tutti artisti scomparsi. Non basta: anche Luciano Berio e Rino Gaetano ci hanno lasciato prematuramente, ma di loro non sembra esserci alcuna traccia filatelica. Allora vediamo i curricula: uno ha vinto l'Oscar, uno ha cantato con Graham Nash a Sanremo ed era un grande amico di Mariele Ventre, il terzo ha patteggiato col fisco per saldare un debituccio da 12,91 milioni di euro per alcune «dichiarazioni infedeli» relative agli anni '89-'95. Anche così non si riesce a comprendere i presupposti che hanno condotto all'annullo. Inutile domandarsi poi quale sia stato il principio per il quale Reitano è stato valutato 35 centesimi di euro più di Pavarotti e 50 meno dell'autore della colonna sonora di "Il Padrino". Siamo certi che i filatelici (specie in via d'estinzione, almeno quanto quella degli appassionati delle cassette Stereo 8) forse saprebbero rispondere a questa domanda; noi intanto proviamo a riascoltare "Power, Corruption & Lies" e "The Division Bell" per convincerci a comprare l'intera serie.

lunedì 17 maggio 2010


Time l'ha messa in copertina per il numero speciale della rivista dedicato ai 100 uomini e donne (ma sarebbe più giusto definirli personaggi) più influenti nel 2010 (insieme a Bill Clinton e Drogba, tanto per dare idea della confusione che regna sovrana). Ma, tra i tantissimi i vip accorsi al Lincoln Center di New York per il gran galà dedicato all'evento, lei spiccava per l'assenza. Stiamo parlando di Lady Gaga, nome d'arte di Stefani Joana Angelina Germanotta, 23 anni, un disco all'attivo con un pugno di singoli in cima alle classifiche di tutto il mondo ("Bad romance", tanto per intenderci, è la colonna sonora degli osceni spot Tim con Christian De Sica e Belen vestiti da poliziotti). Il Venerdì di Repubblica, che non è secondo a nessuno, l'ha piazzata in copertina lo scorso 14 maggio, con una foto in cui appare seminuda, ricoperta da ritagli di giornale (se volete trovare un legame con la prima cover dei Sex Pistols, accomodatevi pure). All'interno nove pagine nove, con un articolo di Gianni Santoro, un confusa riflessione pseudo-filosofica di Angelo Aquaro - un 'backstage' dell'intervista che le aveva dedicato su Repubblica il 31 ottobre 2009 - ed una sorta di saggetto storico ad opera di Brendan Sullivan, nome d'arte DJ VHL, suo collaboratore e amico dai tempi in cui entrambi bevevano vino scadente in un appartamento vuoto, fantasticando sul futuro (per la precisione la signorina è di buona famiglia, ha studiato nel costosissimo istituto privato cattolico Convento del Sacro Cuore, lo stesso di Paris Hilton e questo forse spiega molte cose). Scopriamo che il suo idolo è la mamma (ah, le origini italiane) e quando suo padre ha dovuto fare un intervento al cuore non ha esitato a cucinargli un po' di pasta al dente e a portargliela in ospedale. Adora inoltre Madonna, di cui è molto amica, tanto da inscenare un litigio con bacio saffico al Saturday night live (video a bizzeffe su You Tube); e da clonarla musicalmente fino alla noia. Resterebbe da capire perchè la gente compri o scarichi le sue canzoni; tutta roba che si potrebbe ascoltare riesumando dalle tasche laterali della macchina o da sotto il rack dello stereo, qualche cassetta di Den Harrow o di Sabrina Salerno o di una di quelle compilation anni '80 tipo Mixage. D'altra parte i comportamenti della "ggente" restano un mistero in ben altre situazioni; così come le scelte editoriali di importanti e prestigiosi settimanali. "All we hear, is radio ga ga, Radio blah blah, Radio what's new?" (Quest'articolo è stato scritto ascoltando in cuffia la torrenziale edizione de luxe di "The fame" di Lady Gaga; vi preghiamo di tenerne conto al momento del giudizio).

martedì 11 maggio 2010


"Arrivò inaspettato il suono di una pianola. Riconobbi subito le note di quella canzone (...) Tra le fessure degli scuri potevo vedere via Cantoni deserta e la pianola di legno nero in un mare di luce abbagliante. Alcune operaie di una bottega artigiana stavano sedute sul gradino dell'ingresso, nel filo d'ombra della parete, a guardare due di loro che si erano messe a ballare". Inizia così "Ragazzo della Bovisa", un libro di Ermanno Olmi pubblicato nel 2004 e tratto da un progetto cinematografico interrotto per motivi di salute (la musica e la danza aprivano anche un suo bellissimo film di quarant'anni prima, "I fidanzati", con una lunga scena ambientata in una balera di periferia). Più avanti nel racconto, quando il giovane protagonista è sfollato in una colonia al lago per sfuggire ai bombardamenti della guerra, la musica ritorna, con i ragazzi che scrivono sotto dettatura di un compagno le parole di "Ma l'amore no" per poi cantarla tutti insieme (se volete risentirla, ma non vi piace la versione di Beniamino Gigli, sul web si trova una recente versione di Mike Patton, sì, il cantante dei Faith No More, con orchestra dal vivo). Sono ritratti di un'Italia popolare che forse non esiste più; (sicuramente non esiste più un popolo italiano, ma questo è un altro discorso). Invece la musica ha progressivamente aumentato la sua presenza, fino a diventare pressoché ossessiva in ogni contesto pseudo-sociale. Solamente, non scegliamo più quello che vogliamo ascoltare, ma lo subiamo, più o meno passivamente. Sfortunatamente la profezia di Brian Eno non si è verificata: l'ambient intorno a noi è cacofonia che ci rincorre, con canzoni che suonano come jingle pubblicitari e videoclip che ci scrutano dai luoghi più impensati. Un vero incubo orwelliano, in cui il Big Brother non ha la voce di Janis Joplin, ma lo squittio sardonico di Maria De Filippi; e le mostruose fattezze di tutti i figli dei Pooh!

lunedì 3 maggio 2010

La canzone intelligente


"Cosa ci vuole, chissà, per far successo con la gente, si prende un filo logico... importante, la casa discografica adiacente, veste il cantante come un deficiente, lo lancia sul mercato... sottostante". Ed oggi, per il lancio di un nuovo disco, come si comportano i maghi della Comunicazione? Vediamo: si parte qualche mese prima con un po' di rumors (l'inglese è d'obbligo); in pratica si lasciano trapelare voci che annunciano l'Artista in sala di registrazione, in gran segreto, in un castello scozzese (ma va bene anche una fattoria pugliese). Le notizie si rincorrono sul web, possibilmente 2.0, che il vecchio nessuno sa più dov'è. Nel frattempo la casa discografica pubblica un patinato dvd, dopo il best in doppio cd con cui si è tenuto vivo il ricordo nei tre anni precedenti. Il sito ufficiale a questo punto deve tacere; per parlare si usa il canale multimediale per i fan, dove far sgocciolare news, contenuti esclusivi, foto, diari di bordo e tutto quanto può servire alla bisogna. Un paio di mesi prima della data fissata per la pubblicazione, magari in occasione, del compleanno di The Artist Formerly Known as... , si ripubblica, ovviamente aggiornata, la biografia ufficiale della rockstar. Quando si arriva al lancio del singolo in tutte le radio, con video in tutte le Mtv, si aggiunge un comunicato stampa per annunciare che il brano è già primo nei titoli italiani scaricati da iTunes (nessuno controlla e poi la notizia dura un giorno). Come corollario si può rendere disponibile un'applicazione per iPhone intitolata al nostro eroe (fa chic e non impegna) e per i fan in ritardo tecnologico un servizio sms (a pagamento ovvio), con notizie in anteprima e informazioni. Il tutto capillarmente postato sulla pagina fan di Facebook . Infine la conferenza stampa, da programmare in contemporanea all'uscita di un'intervista esclusiva per un settimanale (Vanity fair per esempio) e un'altra esclusiva per un mensile (tipo XL), al quale il nostro si racconta nei suoi momenti più privati e nascosti, facendo trapelare anche un episodio doloroso; meglio aggiungere anche una dichiarazione-scandalo, del tipo un'accusa ai colleghi pronti a tutto pur di stare sul giornale - guardandosi bene dal fare nomi - dichiarando orgogliosamente che il Nostro il suo disprezzo se lo tiene dentro e, anzi, segnalando gli artisti a Lui più cari (orientarsi su icone intoccabili stile Guccini, De Gregori e Paolo Conte). Poi passare all'incasso; per ballare sul mondo, va bene qualsiasi musica.

mercoledì 28 aprile 2010


Rubando il titolo al primo film di Silvio Soldini, “Un’anima divisa in due”, Arcana finalmente pubblica (l’edizione originale, “Divided soul” è del 1985) la biografia di Marvin Gaye scritta da David Ritz, giornalista e suo confidente dal 1979 al 1983, quando dissapori per questioni di meriti e di soldi misero fine all’amicizia (nel 1987 Ritz ha vinto la causa per essere accreditato come co-autore di “Sexual healing”). Il libro ripercorre tutta la vita e la carriera di uno dei più grandi artisti del ‘900, una storia segnata dal drammatico rapporto con il padre (che lo ucciderà il primo aprile 1984; il giorno dopo avrebbe compiuto 45 anni) e da una serie infinita di successi. Il libro è costruito su una serie di interviste a personaggi famosi e sconosciuti. Come Maxine Powell, colei che Diana Ross nel 1977 da un palco di Broadway presentò come “la donna che mi ha insegnato tutto quello che so”; era una sorta di direttrice della scuola di perfezionamento della Motown oltre che la tour manager delle Supremes. Amaramente ricorda: ”Facevo loro da accompagnatrice, lustrando e lucidando le scarpe, rammentando addirittura i vestiti. In cambio di tutto ciò, mi restano anni di ricordi e nient’altro”. Basterebbe questo a sfatare il mito della Motown come la compagnia irreprensibile di cui parlava allora il “New York Times magazine” in un articolo intitolato “Il grande cuore pulsante e felice di Detroit”. In realtà Berry Gordy, fondatore della Tamla (nonché cognato di Gaye) era una sorta di padre-padrone che aveva pochi riguardi per i suoi artisti e per i suoi collaboratori e approfittò del momento storico favorevole ai diritti civili ignorandone (anche musicalmente) l’evoluzione, almeno fino ai tardi Sessanta (non stupisce la sua freddezza di fronte al progetto che sarebbe diventato “What’s Going On”, uno dei dischi fondamentali della storia del rock, un concept album sul Vietnam, le tensioni razziali e le prime istanze ecologiste). E il tipico sound dell’etichetta? Costruito ad hoc per le radio a transistor e le autoradio che all’epoca stavano invadendo il mercato. Ma perché stupirsi se uno dei primi successi della Motown nel 1959 cantato da Barrett Strong (e scritto da Gordy) si intitolava “Money (That's What I Want)”. Più chiaro di così! (E buon Primo Maggio a tutti).

martedì 20 aprile 2010

Anni di piombo


Benedetta Tobagi ha tre anni quando suo padre Walter, giornalista del Corriere della Sera, viene assassinato il 28 maggio 1980 da una sedicente Brigata XXVIII marzo, un gruppuscolo che con questa azione vuole ‘accreditarsi’ presso le più ‘importanti’ Brigate Rosse. Non lo ha praticamente conosciuto, se non attraverso i ricordi di chi lo ha incontrato – amici, colleghi, politici – i suoi scritti, i diari, gli atti processuali; una dolorosa ricerca diventata un libro – “Come ti batte forte il mio cuore. Storia di mio padre” edito da Einaudi – bello e necessario, se si vuole capire qualcosa dell’Italia di ieri e anche di oggi (come quando si ricordano gli anni dell’occupazione del Corriere da parte della P2 con l’untuosa intervista di Maurizio Costanzo – ovviamente tesserato della loggia – al venerabile Licio Gelli). Pagine che rievocano un’Italia che appare lontana, grigia come i documentari dell’epoca e di quel piombo che segnò gli anni ’70, un periodo (iniziato alla fine dei ’60 e scivolato oltre gli ’80), di cui si fatica a immaginare una colonna sonora. Eppure furono anni che traboccavano musica: il progressive (P.F.M, Banco, Orme…), i cantautori (Guccini, Bennato, De Gregori…), il jazz-rock (Area, Perigeo…), la riscoperta della musica popolare (il Nuovo Canzoniere Italiano, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, il Canzoniere del Lazio…), il free - jazz italiano; anni in cui nacquero le prime radio libere, ricchi di festival e di riviste (Gong, Muzak, Re Nudo, Pop records…) sulle cui pagine si dibatteva il ruolo, la funzione, gli imperativi della musica del tempo. Ma ripensando, ricordando o scoprendo quegli anni italiani, sembra di sentire solo l’assordante fragore del silenzio. Nessuna canzone o nessun genere musicale sembra in grado di riportarci indietro a quel momento storico, come, tanto per intenderci, riesce a fare il rock’n’roll con l’America degli anni ’50 o il punk con l’Inghilterra pre-Tatcher. Che poi anche per questa prima parte del terzo millennio, si fatichi a trovare una ‘musica’, bè, questo è tutto un altro discorso.

lunedì 12 aprile 2010

Musica maestro



Il liceo musicale e coreutico, qualunque cosa voglia dire, introdotto dal regolamento Gelmini, ha fatto il pieno d’iscritti. Un vero e proprio boom ("Boum", avrebbe cantato Charles Trenet): nelle trenta sezioni previste in tutta Italia, il numero delle domande ha raggiunto il doppio dei posti disponibili, tanto da richiedere a fine maggio una prova selettiva che promuoverà soltanto chi dimostrerà di avere basi di cultura musicale ("Chiedi chi erano i Beatles"?). Nella stessa settimana Red Canzian (il bassista dei Pooh) ha lanciato la Fondazione Q: "Non è un talent show. Niente tv. Noi faremo gli album.
L'unica caratteristica per superare la selezione è l'eccellenza. Il talento vero. Quello non si insegna". Il programma, di basso profilo, ribadito nella home page del sito, è quello di trovare i nuovi Beatles; non si capisce se per partecipare si debba pagare oppure no; ma queste son bazzeccole, quisquilie, pinzellacchere, avrebbe detto Totò (che in un “Totò all’inferno”, il contrabbasso lo faceva letteralmente esplodere alla fine di un concerto in una cave esistenzialista). Di sicuro si paga al Centro Europeo di Toscolano, la scuola fondata da Mogol nel 1992 per formare interpreti, autori, compositori, arrangiatori tecnici del suono, “la prima che coinvolge l’interezza della persona: mente, anima e corpo”. (Ma mi faccia il piacere!). Per gli altri restano i desueti Conservatori e ovviamente “X factor” e “Amici”, sui quali Red ha parole durissime, inevitabilmente condivisibili: “Lì usano la musica per fare tv, lanciano artisti che per essere scelti devono avere caratteristiche adatte a passare attraverso il piccolo schermo. E se oggi arrivasse Dalla non lo prenderebbero mai. Come non passerebbe le selezioni neanche De Gregori". Vero, ma per Dalla non sarebbe stata una grande perdita e comunque ai ragazzi dei talent-show (e di quelli che si iscriveranno al liceo?) di essere musicisti non frega niente: a loro interessa diventare famosi. Chissà, forse hanno nelle orecchie quella vecchia sigla di Canzonissima ’70: “Ma che musica, che musica, che musica maestro. Hai trovato la via giusta per la celebrità!

lunedì 5 aprile 2010


Il nuovo cd di Franco Zaio (bizzarro “ircocervo”, animale mitologico, metà musicista, metà libraio), è totalmente autoprodotto e autodistribuito sul suo blog; sono cover di storici brani dei Clash per voce e chitarra: più che un disco vero e proprio, come il precedente “Last blues”, dedicato alle poesie di Pavese, “Know your Clash” è un documento, una traccia sonora di vita, resa possibile (o più facile) dall’era digitale in cui annaspiamo. Ma così come oggi non siamo in grado di riascoltare i rulli di cartone sui quali Scott Joplin incise i primi assoli di pianoforte, tra non molto non saremo nemmeno capaci di riprodurre il 45 giri che Elvis Presley fece a sue spese a Memphis, in tempi più recenti. Per le bobine sulle quali registravamo la voce della nonna, per riascoltarla tra lo stupore generale, è già troppo tardi; e anche per le musicassette siamo ormai agli sgoccioli. Tutto questo è accaduto nello spazio di un solo secolo; cosa accadrà fra trenta o quarant’anni? Quanto di quello che stiamo ansiosamente accumulando in ’tera-disk’, sarà riascoltabile dalle prossime generazioni? (Per approfondimenti vedi il bel libro di Maurizio Ferraris, “Documentalità”). Dopo aver passato la vita a iper-documentare le nostre passioni musicali, vere o presunte, ai nostri figli o nipoti (ammesso che siano minimamente interessati) forse non rimarrà niente, nemmeno una nota. È pur vero che in questo momento l’industria discografica si mantiene in vita proprio grazie alle ristampe (Hendrix dev’essere arrivato alla trentacinquesima rimasterizzazione!); ma chi decide cosa ripubblicare/salvare nei nuovi formati e perché? Due sono i soggetti deputati a scegliere: il mercato, nefasto o forse solo concreto e le Fondazioni, istituzioni che tramandano l’eredità di un’artista, anche a costo di travisarla e mummificarla. In Italia le più attive sono quella dedicata a Giorgio Gaber e a Fabrizio De Andrè: due artisti decisamente fuori dal coro, spesso costretti a rientrarvi proprio in occasione delle loro celebrazioni. Ma se la prima sembra impegnata a mantenere in vita lo spirito dell’artista milanese (e del suo alter-ego, ancora vivente, Sandro Luporini), la seconda (sia detto con il massimo rispetto) indugia in una rievocazione al limite dell’imbalsamazione. La mostra a lui dedicata (passata per Genova e Nuoro, attualmente all’Ara Pacis di Roma) era al limite; il libro pubblicato da Chiarelettere “Tourbook” il limite sembra decisamente oltrepassarlo (come sicuramente fa il racconto a fumetti di Berardi e Càlzia “Uomofaber”, al Museo Luzzati di Genova fino al 18 aprile). Ma forse siamo noi, che alla commemorazione preferiamo il soffio vitale della condivisione. Proprio come Franco Zaio.

lunedì 29 marzo 2010

Wish you were here


Walter arrivava puntuale ogni sabato mattina, appena dopo le nove. Vestito con un lungo impermeabile blu, da cui spuntavano due scarpe nere, spesse e gommose, la sua faccia da Stan Laurel triste e solitario, entrava nel negozietto di dischi usati dove lavoravo e si dirigeva senza indugi verso la casella dei Pink Floyd; dopo aver scartabellato qualche minuto, ne estraeva "A sacerful of secret". Oppure "The piper at the gates of dawn". In mancanza si accontentava di "A nice pair", il doppio album che li racchiudeva entrambi, se pur con una copertina diversa. Invariabilmente, metodicamente, settimana dopo settimana, Walter acquistava sempre gli stessi due ellepi. Un sabato, dopo che per qualche tempo nessuno dei due titoli fu disponibile, si presentò con un sacchetto, da cui li estrasse goffamente, inserendoli in mezzo agli altri; dopo aver girellato cinque minuti, li riprese per portarli alla cassa con aria trionfante. Pagò e uscì visibilmente soddisfatto. Ho sempre pensato che fosse pazzo, ma negli ultimi tempi ho dovuto rivedere il giudizio, quando ho capito che in fondo tutti noi appassionati di musica (categoria prevalentemente maschile, di ardua definizione, ma certamente in via d'estinzione), non facciamo altro che ricomprare sempre lo stesso disco. Forse non è uno, forse sono dieci, ma il concetto non cambia. È solo con quel/quei titolo/i che la magia si ripete, restituendo l'emozione del primo ascolto, riportandoci alla cameretta con lo Stereorama 2000 comprato per corrispondenza da Selezione del Reader's digest o nel salotto del compagno di classe il cui papà, beato lui, aveva il Thorens con testina Shure e il preamplificatore e il finale Quad. Walter lo aveva capito, da subito; e grazie a questa intuizione non si era fatto distrarre inseguendo migliaia di gruppi e di artisti, in vinile, in cd, in mp3, conservando nostalgicamente le prime musicassette, addirittura gli stereo 8 di papà; no, lui si era semplicemente, ma efficacemente, concentrato su quei due dischi, tralasciando tutto il resto. Ho incontrato Walter da poco: stava comprando i primi quattro dei Black Sabbath. Nessuno è perfetto.

lunedì 22 marzo 2010


Ieri pomeriggio, mentre uscivo da un negozio sotto casa, mi avvicina un ragazzo, età indefinita, trenta, quarant'anni, vestito in maniera sciatta, capelli lunghi e sporchi. Da bravo progressista che non lascia inascoltate le richieste del prossimo, tolgo le cuffiette (stavo ascoltando "Self titled" degli XX), pensando a quale bizzarra motivazione avrebbe preceduto la consueta richiesta di qualche euro: un panino, il biglietto del treno per tornare a casa, la benzina per la macchina, un regalo alla vecchia mamma in fin di vita. Invece, arriva una domanda: "Ascolti musica?". Sì, ovviamente. "Rock o jazz?". Entrambi. A questo punto estrae dalla tasca un cd in una busta di plastica, con una copertina in bianco e nero, fotocopiata. "Ecco, questo l'ho inciso io, da solo. È un genere un po' di confine, ma credo che potrebbe interessarti". Odio i generi al confine. Leggo le scarne note di copertina: Roberto Ferri (nome di fantasia, ma solo perché quello vero non me lo ricordo) suona il basso come primo strumento, poi percussioni e chitarra. un indirizzo di My Space. Istintivamente penso a Marcus Miller. "Come saprai, è molto difficile riuscire a far ascoltare la propria musica. Così ho deciso di provare a proporla personalmente. Sono certo che ti piacerebbe, sono bravo sai, e costa solo cinque euro". Il mio cervello lavora vorticosamente: lo prendo e se poi non mi piace? Con tutti i dischi che stanno aspettando di essere ascoltati per la prima volta. Per non parlar di tutti quelli che vorrei riascoltare... E se dentro non c'è registrato niente? Cinque euro? Ma se non pago Brad Mehldau o David Byrne perché dovrei dare dei soldi a uno sconosciuto? Gli dico no, grazie. Mi allontano, inseguito dalle sue parole - "Peccato, hai perso un'ottima occasione. Ciao, stai bene" – vergognandomi un po'. Appena arrivo a casa sono definitivamente pentito. Avrebbe potuto essere una bellissima scoperta o nel peggiore dei casi un disco come mille altri che ho sentito e ho dimenticato dopo due minuti. E soprattutto avrei potuto conoscere una persona: non serve anche a quello la musica?

lunedì 15 marzo 2010

Re-play


Un articolo apparso sul Domenicale del Sole 24 ore del 28 febbraio a firma Stefano Salis, segnala il caso di Helena Hegemann, una diciassettenne scrittrice tedesca che ha ammesso, dopo esser stata scoperta, di aver scopiazzato allegramente intere pagine da un altro libro. Ciò nonostante, "Axolotl Roadkill" – storie di droga e sesso a Berlino, lo pubblicherà Einaudi – ha continuato a vendere ed è anche arrivato in finale al premio letterario della Fiera di Lipsia. L'autore parla esplicitamente di plagio, ma poi concede che "la campionatura è, in effetti, una delle cifre della contemporaneità", in particolar modo con riferimento alla musica. Vero, ma fin dalle origini la 'campionatura' è stata un modo per trasmettere la musica, almeno fino a quando non ne è stata codificata la scrittura, così come la copiatura, il suo equivalente letterario, ha reso possibile tramandare i capolavori del passato; ma senza per questo che nessuno confondesse il monaco cistercense chino sugli incunaboli con Aristotele. Tra autore e lettore non vi è nessun intermediario (al limite un traduttore); mentre l'esecutore è un medium necessario all'ascolto (e se volessimo esagerare potremmo considerare anche i media nel conto: una radiolina, un impianto hi-fi e un iPod rappresentano tre ascolti differenti), tanto che tutta la tradizione occidentale si basa proprio sul concetto di esecuzione e di interpretazione. Con l'innovazione tecnologica, con la contemporaneità, si sono aggiunti la campionatura e il remix: con il primo s'intende la porzione di un brano dichiaratamente inserita all'interno di un altro (dal basso di "Good times" in "Rapper's delight" a "Mamma voglio anch'io la fidanzata" degli Articolo 31); con il secondo la rilettura (o riscrittura?) di una canzone, da parte di un dj o di un altro musicista (ad esempio "Artificial Horizon", imminente raccolta di remix degli U2). Ma anche in musica e nell'era digitale dell'incerto diritto d'autore, il plagio resta plagio. (Questo articolo è stato rimediato leggiucchiando svariate fonti: sono a disposizione degli autori e degli eventuali eredi per l'assolvimento degli obblighi di legge).

lunedì 8 marzo 2010

Riceviamo e volentieri pubblichiamo


Gentilissimo, vorrei affidare a te queste parole, prima del mio suicidio digitale, affinché il mio cattivo esempio possa servire alle nuove generazioni per non commettere gli stessi errori. Sono le 4 e 30 di una lunga e livida notte di marzo: ho appena finito di scaricare "Il tesoro della Sierra Madre" di John Huston e cosi anche il mio hard-disk esterno da un Terabyte dedicato ai film è completamente pieno. Sono più di 1400 titoli. Ad oggi ne ho visti sette. Intanto, grazie ai miei abbonamenti Rapidshare, Megaupload e Hotfile, sto contemporaneamente facendo il download della discografia completa di Anthony Braxton in formato mp3, di un vecchio disco della Rah band di cui non ricordo niente se non la copertina, di quattro o cinque gruppi della scena neo-folk tra cui Peasant, The Bear That Wasn't e First Aid Kit. Finiranno prima sul desktop del mio computer, dove già stazionano il nuovo Jay Farrar, l'ultimo dei Turin Brakes e una compilation di musica sudafricana, Soweto Township, Sounds from the Golden Age of Mbaqangwa. In seguito transiteranno da iTunes per finire nel mio iPod da 160 gigabyte insieme ad altri 2000 dischi, più o meno. Qui sono messo meglio: ne ho già sentiti almeno un centinaio. Poi ci sono i podcast quotidiani di 610, Caterpillar e della trasmissione settimanale di Rogie, The Vinyl sunday, novanta minuti di musica black, in tutte le sue accezioni. Siamo alla quinta puntata; ascoltata mezza. Questa sterminata massa binaria m'impedisce l'ascolto dei dischi che amo (e che oramai sono diventati solo un piacevole e sbiadito ricordo), impegnato come sono a decomprimere, aggiungere le copertine, classificare e infine dimenticare in un angolo recondito dell'inconsistenza digitale in cui oramai abito. Non ho tempo. E di conseguenza non ho nemmeno denaro. Così ho finalmente maturato il proposito di cancellare tutto, annientare ogni singolo bit della mia inutile e inutilizzata raccolta; con una semplice pressione di un tasto, da stanotte sarò di nuovo un uomo libero. Guardo per l'ultima volta il computer: il nuovo Moby, live da Montreal? Clic.

lunedì 1 marzo 2010

Un festival per la musica

Ci sono festival e rassegne per ogni argomento (e per alcuni, anche più di uno): letteratura, scienza, filosofia, storia, filosofia della storia, storia della filosofia. E poi la mente, il mare e qualunque altro pretesto possa servire a convincere uno sponsor pubblico o privato. Un solo tema è pervicacemente sfuggito fino ad oggi: la musica. Certo, direte voi, la musica si ascolta e le occasioni, anche molto interessanti, ci sono. Vero; ma, lapalissianamente, parlare di musica non equivale ad ascoltarla. Qualcosa ogni tanto accade: a Genova, Giovanna Zucconi per i Lunedì FEG al Modena, ha intervistato diversi personaggi sulle canzoni della loro vita; e all'interno di "Fare gli italiani", il prossimo 29 marzo al Teatro della Corte, Ernesto Franco
animerà una serata dal titolo "Sport e musica leggera" (speriamo non limitandosi ai terrificanti inni delle squadre o a De Gregori e alla sua sfiancata leva calcistica del '63). Ma sono casi sporadici, che non hanno nulla a che vedere con manifestazioni come il festival di Mantova per la letteratura, Modena per la filosofia o Genova per la scienza: insomma, siamo certi che un'iniziativa di questo tipo – tre giorni in un'amena località in compagnia di musicisti, autori, compositori, operatori, critici – potrebbe essere un'occasione per allargare il sempre più asfittico mercato discografico, oltre che un interessante momento di dialettico confronto fra chi la musica la fa e chi l'ascolta (o la subisce). Altrimenti tocca rassegnarsi e attendere che qualche artista di buon cuore passi da Fazio per presentare il suo nuovo cd o che Morgan dichiari di essere il figlio illegittimo di Fanfani, con conseguente speciale ad Anno zero; e sbarrare gli occhi di fronte alla puntata di domenica 28 febbraio dell'Arena condotta da Massimo Giletti, in cui Marino Bartoletti e Cristiano Malgioglio discettavano su Sanremo e sul televoto truccato, con Klaus Davi, Maria Teresa Maglie e Katia Ricciarelli a dargli manforte. Roba da rimpiangere il silenzio (magari nella versione di John Cage).

lunedì 22 febbraio 2010

Masters of war


È uscito negli Stati Uniti, ma chissà se sarà mai tradotto in Italia, "Sound Targets: American Soldiers and Music in the Iraq War", uno studio di Jonathan Pieslak sulla musica che ascoltano i soldati americani durante le operazioni di guerra. I risultati non sono sconvolgenti e tutto sommato prevedibili. Secondo l'autore (qui riprendiamo l'articolo di Katia Riccardi su Repubblica) "in Iraq o in Afghanistan le playlist sono dominate da Slayer, Metallica e Eminem". Infatti l'heavy metal, tra chitarre e batteria, è una buona base per prepararsi a una missione perché, scrive Pieslak, "ha un suono simile a una scarica di proiettili sparati da un'arma automatica". Chissà perché, lo sospettavamo. Non ce li vedevamo proprio i nostri eroi, torturare qualche disgraziato a Guantanamo ascoltando "My funny Valentine" cantata da Chet Baker o darci sotto con i bombardamenti notturni sulle popolazioni civili sulle note di "Pink moon" di Nick Drake. Sarebbe interessante scoprire cosa accade quando i soldati tornano dal fronte: continuano ad ascoltare trash-metal e gangsta-rap oppure si riconvertono a Beyoncé e Garth Brooks, nella speranza di un matrimonio felice con barbecue il sabato pomeriggio con gli amici (tutti reduci)? Ma per noi, sarebbe ancor più fondamentale scoprire che cosa ascoltano i protagonisti delle nostre 'missioni di pace' all'estero: probabilmente Toto Cutugno e il suo "Italiano" e, solo per i carabinieri nei secoli fedeli, il trio Pupo, Emanuele Filiberto e il tenorino, così da esser pronti a un eventuale ritorno dei Savoia (a guerra finita ovviamente) o all'ancor più temibile vittoria dell'UDC. Infine, per gli amanti della sociologia ad alto rischio, ci sarebbe anche da promuovere uno studio sul contenuto dell'iPod del tredicenne sicario della camorra o del killer della 'ndrangheta in trasferta a Duisburg. Noi, per iniziare, possiamo solo dire ciò che non contiene: né "Masters of war" di Dylan e nemmeno "War" di Edwin Starr, anche nella versione del Boss. Alle quali vi rimandiamo per una pacifica settimana musicale post-Sanremo.

lunedì 15 febbraio 2010

BerSanremo



Fino a qualche giorno fa digitando le parole “Bersani” e “Sanremo” in un qualunque motore di ricerca Internet, sarebbe saltata fuori la notizia della partecipazione del cantautore romagnolo Bersani Samuele all’edizione del festival di Sanremo del 2000 (la canzone "Replay", si classificò al 5° posto, ottenendo il premio della critica). Da oggi, grazie al nuovo corso del PD, la pagina di Google si è arricchita di nuovi e irresistibili contenuti: infatti apprendiamo da un’intervista al settimanale "A", diretto dall’ineffabile Maria Latella, che il segretario del primo partito dell’opposizione sarà all'Ariston di Sanremo, insieme a una delle sue figlie, per seguire la finalissima del 20 febbraio. Come se non bastasse la tv democratica “Youdem”, per la prima volta farà un suo dopo-festival. D’altronde, dice il Bersani Pierluigi, “il Pd è un partito popolare, senza snobismi, che va dove c'è la gente. Dove la gente ha dei problemi e soffre. Ma anche dove si diverte”. Ecco, se il Pierluigi si fosse fermato in tempo, avremmo potuto condividere la sua affermazione; impossibile negare in questo caso, che il PD vada dove la gente soffre (altrettanto impossibile negare che spesso è proprio lo stesso partito a mettere in moto i meccanismi della sofferenza). Ma via, credere che la gente a Sanremo si diverta e soprattutto credere che, in questo sciagurato 2010, qualcuno voglia o possa acquistare i biglietti per tutte e 5 le serate (sì, non si può comprare la singola data, se non fuori dall’Ariston in caso di invenduti, ovviamente la sera stessa) al modesto prezzo di 1200 euro per la platea e 590 euro per la Galleria, è veramente un’idea bislacca. O forse l’idea bislacca è quella di credere che la sinistra dovrebbe distinguersi dalla destra, senza inseguirla sullo stesso terreno; e ad esempio presentarsi al Premio Tenco e senza nemmeno annunciarsi. Per dirla con il Bersani Samuele (uno che il Tenco l’ha vinto sempre nel 2000 per l’album "L'Oroscopo Speciale"): Chiedimi Se Sono Felice!

domenica 7 febbraio 2010

Trolls, Mogan & Faber


"Se la leggenda diventa realtà, stampa la leggenda". Vero, ma anche Dutton Peabody, il direttore del giornale che pronuncia la frase nel film di John Ford “L’uomo che uccise Liberty Valance”, sarebbe stato in difficoltà di fronte alla strombazzata reunion dei New Trolls con Vittorio De Scalzi, Nico Di Palo, Gianni Belleno e Giorgio D’Adamo. Infatti come comportarsi con Ricky Belloni (componente storico della formazione e autore di brani come “Quella carezza della sera”) che si affretta a precisare che “i New Trolls non esistono più, ci sono due realtà che portano in giro la storia del gruppo che sono composte da ex componenti dello stesso, una è la mia che si chiama Il Mito New Trolls e poi ce n'è un'altra che invece gira col nome La Leggenda New Trolls la quale, mistificando la realtà, ha rivendicato una presunta reunion del gruppo”. Sono gli assilli della comunicazione contemporanea, che quotidianamente si ripropongono: come nel caso Morgan ad esempio, dove ministri, nani e ballerine (in Italia sono un’unica categoria) si sono affrettati ad alimentare un insulso bla bla bla, che di buono ha fornito solo l’articolo di Francesco Merlo su Repubblica del 4 febbraio (Morgan, il falso maledetto). È pur vero che nella musica, nel rock in particolare, realtà e leggenda vanno spesso a braccetto, anche perché non c’è niente come un’autentica leggenda (quasi un ossimoro) in grado di alimentare guadagni più o meno giustificati. Ne sa qualcosa Fabrizio De André, di cui in questi giorni si parla nuovamente perché il Comune di Genova ha messo a punto il bando di gara per l’aggiudicazione dell’ex negozio di Gianni Tassio, acquistato due anni fa per l’iperbolica cifra di 385.539 euro. Ovviamente uno dei requisiti è che la “destinazione dovrà tenere comunque conto del valore storico del negozio e mantenere quindi le caratteristiche di punto di interesse culturale”. Peccato che in quei locali De André non ci fosse mai entrato, visto che l’originale Gianni Tassio si trovava due-trecento metri più avanti! Ma di fronte alla leggenda, che importanza può avere la realtà?

Un Amore Supremo

In occasione dell'uscita in edicola di A Love Supreme, primo titolo della collezione I Capolavori del Jazz in Vinile, sono andato a ria...