mercoledì 11 febbraio 2015

I miei tempi di Sanremo

Ai miei tempi il Festival di Sanremo non si guardava; non era una presa di posizione, non era un atto politico o rivoluzionario, semplicemente non ci veniva nemmeno in mente di guardarlo. Avevamo di meglio da fare, alcuni, o non avevamo nient’altro da fare e allora ci annoiavamo struggendoci d’amore probabilmente; ma di guardare il Festival nemmeno il pensiero. Nel 1978 per esempio, l’edizione dei miei sedici anni, a presentarlo c’erano Stefania Casini con Beppe Grillo (non è un caso di omonimia), in gara c’era Anna Oxa (fu esibita come una cantante punk, figuriamoci, “Un’emozione da poco” l’ha scritta Ivano Fossati: non è un caso di omonimia), i Matia Bazar, che vinsero, Rino Gaetano e Roberto Carrino (chiunque egli sia; e se oggi vedete il suo nome su un furgoncino di una ditta di pulizie, probabilmente non è un caso di omonimia). Ma noi, beati, non lo guardavamo: anche perché la RAI, allora ancora cosciente, trasmetteva le prime due serate alla radio e solo l'ultima in TV. Figuriamoci, il sabato, stare a casa a vedere Sanremo.

Ai miei tempi un po’ più avanti, nel 1992, poteva capitare che Alfredo, un amico che arrotondava l’università lavorando per la Doxa, ti chiedesse se ti andava di far parte delle giurie popolari sparse nelle sedi regionali RAI; e addirittura se avevi qualcuno da portare. Così in una dozzina ci siamo ritrovati in corso Europa, a Genova, in una sala con un mega schermo, tipo una televisione normale di oggi (e un bel buffet a dire il vero), a ridere di Pippo Baudo e dei vestiti delle vallette (una adesso fa l’opinionista), a fare battute salaci sui testi delle canzoni che ascoltavamo increduli, a votare a caso (quell’anno Pupo  - lui, ora lavora in un TV albanese - eliminato dalla finale, denunciò i brogli dichiarando pubblicamente di aver "comprato" il 4º posto nel 1984). E a sperare che almeno non vincesse Barbarossa con quell’odiosa canzone in cui portava a ballare la mamma, che noi, i genitori, non avevamo ancora smesso di ucciderli (e meno male, che chissà dove saremmo andati a dormire).


Ai miei tempi, oggi, che sono ancora i miei tempi nonostante tutto, piuttosto che guardare Sanremo scelgo su un film che ha vinto non so come e perché 5 o 6 premi Oscar, ambientato in Iraq e in cui ogni dieci quindici minuti c’è da disinnescare una bomba. Giro sul primo canale una sola volta, giuro, e c’è uno che parla di cristo e della provvidenza, con dieci figli dieci. Finito il film vado a letto e mi addormento sereno (più o meno). La mattina dopo, mentre accompagno Sofia a scuola, incontro la figlia liceale dei miei vicini di casa: un colpo di genio e le chiedo: “Hai visto Sanremo?” Mi guarda strano; le dico, il festival, in tv. “Ah”, risponde, “in camera mia non ho la tv, solo il computer, ieri sera abbiamo guardato You Tube con le amiche, non ho visto Sanremo. Cos’è?” Mentre torno indietro, apro Facebook e Twitter dove molti miei amici, veri e di social, invero più giovani, tra i trenta e i quaranta, ridono di Carlo Conti e dei vestiti delle vallette, fanno battute salaci sui testi delle canzoni fino a quando non gli hanno bloccato l’account, vai a sapere perché. 
E sperano che almeno non vinca Grignani, che va bene dargli due colpi, ma non si può proprio sentire.

ps. Questo video si riferisce all'edizione del 2000, roba che nemmeno Scorsese o Coppola hanno osato immaginare. Ringrazio chi me lo ha ricordato, lui, giovedì è sul serio a Sanremo. 

giovedì 5 febbraio 2015

Whiplash: come dare torto a Tracey Thorn?

Che un film come Whiplash abbia ricevuto cinque nomination agli imminenti Oscar può essere letto in due soli modi: come l’imbarbarimento finale del cinema contemporaneo o come il rincoglionimento definitivo di chi sta scrivendo queste righe. Andrew Neyman ha diciannove anni e un solo obiettivo: diventare come Buddy Rich. (Per chi non lo sapesse il suddetto Rich è un batterista jazz molto famoso negli anni ’50, dotato di straordinaria tecnica e di una potenza e velocità senza eguali - che sfogava in memorabili ‘battle’ con i colleghi dell’epoca -  un maestro per tutta una generazione di spaccatamburi senz’anima). Per riuscire nell’impresa è disposto a tutto, a sacrificare gli affetti, gli amici, la prima timida ragazza che chissà cos’ha trovato in lui; e soprattutto è disposto a farsi maltrattare, schiaffeggiare, umiliare da Fletcher, il direttore di una scuola che assomiglia più a Parris Island di Full Metal Jacket (c’è anche il trombonista Palla di Lardo, state tranquilli) che alla High School of Performing Arts di Saranno Famosi.
Infatti non ci sono donne (anche la mamma di Andrew è scomparsa appena ha capito che suo marito altro non era che uno scrittore fallito: una delle mille amabili frasi con cui Fletcher motiva il ragazzo); e quando a suonare il sassofono è una ragazza, è solo per cinque secondi, abbastanza per capire che il jazz non è roba da femmine. Invece ci sono l’omosessualità, latente e dichiarata, almeno a livello d’insulto e il sangue, a fiotti, in ralenti e grandangolo, sui tamburi e sui piatti (e anche sui volti), che sgorga dalle mani piagate per lo sforzo e la fatica. Insomma la musica è sofferenza (e può essere), ma soprattutto è una battaglia in cui il nemico è ovunque, in chi ti sta a fianco (i batteristi sostituti che a turno diventano titolari per umiliare l’altro), in quelli che suonano con te (mai degnati di uno sguardo in due ore di film), nel tuo maestro che è non esiterebbe a ucciderti se servisse a farti suonare meglio e che forse sei tu che devi uccidere per liberare il genio che nascondi in fondo a te (ma molto in fondo).
Tutto questo annegato in un contesto musicale pressoché nullo, tanto pleonastico e scolastico è il jazz che si ascolta: anche stendendo un velo sul momento in cui Fletcher in un localino azzarda un pezzo al pianoforte, resta la musica dell’orchestrina, un paio di brani – tra cui ‘Caravan’ in una versione incurante della magia esotica della scrittura ellingtoniana – che forse piacerebbero a quel Wynton Marsalis, spesso evocato come la realizzazione finale di ogni buon musicista.

Io, che per prepararmi mi ero anche rivisto L’uomo dal braccio d’oro (dove Sinatra la batteria imparava a suonarla in carcere ed era il suo modo di provare a star meglio nella vita), con le note di Shorty Rogers e le bacchette di Shelly Manne (bianco come Rich, ma che differenza, fidatevi anche se non siete dei jazzofili incalliti), mi sono ritrovato a odiare tutti, il maestro, l’allievo, gli orchestrali, la musica: forse lo scopo del film è proprio questo, ridurre anche lo spettatore nella condizione hobbesiana di homo homini lupus. E forse la realtà è davvero questa e io, che mi sono rincoglionito per davvero, non me ne sono nemmeno accorto.

Un Amore Supremo

In occasione dell'uscita in edicola di A Love Supreme, primo titolo della collezione I Capolavori del Jazz in Vinile, sono andato a ria...