martedì 23 maggio 2017

A me Roger Moore ha sempre fatto venire in mente il mio papà.

Non perché gli assomigliasse, anzi. Ma per via di una storia che inizia l’1 giugno 1987. Proprio quel giorno, a causa di una legge che ti costringeva al servizio militare se non sostenevi almeno due esami nell’anno universitario in corso, mi ero ritrovato a Rieti, caserma Verdirosi, Primo Battaglione Nucleare Batteriologico e Chimico. Tralascio il racconto dei trecentosessantagiorni che seguirono. Invece saltiamo al 24 giugno: mentre marcio sul piazzale della Verdirosi in assetto da guerra nucleare, con tanto di maschera antigas, mio padre è al Palazzetto dello Sport di Genova. Parentesi: per mantenermi agli studi (diciamo così), insieme ad alcune occupazioni in ambito musicale, non disdegno di lavorare nella manovalanza dei concerti che arrivano in città grazie a un noto promoter. Faccio un po’ di tutto: porto i manifesti in tipografia a stampare, in comune per l’attacchinaggio, organizzo il servizio d’ordine (bè, più o meno), mi occupo del carico e scarico del materiale dei concerti, recluto persone tra gli amici. E tra i parenti. Tra cui mio padre, in cassa integrazione da qualche anno dalla conceria Bocciardo, quella bella di mattoni rossi in via Canevari, che l’han buttata giù perché sono ignoranti; la sua partecipazione è addirittura essenziale nei concerti più importanti, quelli che richiedono l’utilizzo del carrello elevatore.
Ecco spiegata la sua presenza (e la mia assenza) quel fatidico 24, a movimentare ‘flight case’ tra gli svariati TIR che accompagnano il tour europeo di Frank Sinatra, misteriosamente approdato in uno dei luoghi meno acusticamente adatti ad un concerto del genere. Ma tant’è, la sera tutto è pronto: c’è grande attesa, il palazzetto è addobbato a festa, le sedie sono sistemate davanti al palco, le prime file sono per gli ospiti d’onore; mio padre si aggira incuriosito nel backstage, anche perché al termine del concerto bisognerà smontare tutto. Mentre inganna l’attesa vede Roger Moore; lo riconosce, cosa non scontata considerando la sua scarsa dimestichezza con il cinema; gli viene in soccorso la serie Attenti a quei due che vedevamo insieme tanti anni prima, la domenica nel tardo pomeriggio. È elegantissimo, incute timore, dall’alto del suo metro e ottantacinque (mio padre non arrivava all’uno e settanta). Vorrebbe chiedergli l’autografo, ma è indeciso, la timidezza, la vergogna, una naturale inclinazione a stare al proprio posto (considerando la fatica che aveva fatto per arrivarci - pensava - meglio non rischiare di perderlo). Ma ecco che un po’ più in là passa Pino Caruso: a molti di voi questo nome non dirà niente, ma tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del decennio successivo il comico siciliano godette di una certa popolarità. Mio padre lo riconosce, si avvicina. Lo sente più abbordabile, in fondo è un conterraneo (mio padre era giunto a Genova da Riesi - CL, a 14 anni); forse lo apostrofa in dialetto, chissà. Il risultato è un autografo del Caruso in questione (che non so dove sia finito peraltro) e Roger Moore che si allontana in sahariana verso il camerino di ‘The Voice’. La storia finisce qui e io magari un libro sul mio papà prima o poi lo scrivo davvero. 
Intanto sarei curioso di sapere se stasera troverà il coraggio di chiedergli l’autografo. Ciao, a tutti e due.

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