domenica 16 ottobre 2016

IL NERO E L’AZZURRO (DEL MARE)

Da sei anni vivo a Milano e due domande implacabilmente affiorano a ogni nuovo incontro: alla prima - “non ti manca il mare?” - ho imparato a rispondere no, lasciando cadere velocemente la conversazione. La seconda, quella con cui l’interlocutore cerca di empatizzare, “genoano o sampdoriano?”, ne porta con sé subito un’altra: “e come mai sei interista?” Rispondo con questo scritto, cui da oggi rimanderò con mio grande sollievo.

Sono nato a Genova, quartiere di Marassi, a 350 metri dallo stadio. Era bello lo stadio vecchio; ora non c’è più, l’hanno buttato giù per Italia ’90 e l’hanno ricostruito nello stesso punto: un po’ più brutto, col prato che non drena, togliendo i parterre, dove ogni partita c’era uno che inseguiva il guardialinee ricoprendolo, del tutto gratuitamente, di sputazza e insulti. Lo so perché da quando ho memoria – l’anno in questione è il 1970 - ogni santa domenica della mia infanzia l’ho trascorsa allo stadio: con mio papà e, se lui non c’era, con qualche vicino di casa. Un giorno col fruttivendolo del piano di sopra sono andato a vedere Italia Lussemburgo, 5 a 0 per noi, quattro gol di Gigi Riva (ma qui siamo già nel 1973) e ci siamo fermati a salutare Maurizio Barendson, che lui era una gran faccia tosta  - il fruttivendolo, non Barendson - e io invece mi vergognavo come un ladro. E quando non c’era nessuno disponibile, andavo da solo, chiedendo a un signore qualunque, trovato lì fuori, di fingere di essere il mio papà; tanto bastava essere piccoli e accompagnati per entrare gratis. Quando dico ‘ogni santa domenica’ voglio proprio dire tutte le domeniche: a Genova ci sono due squadre e ogni settimana si andava a vedere una partita, qualunque squadra giocasse e qualunque squadra si tifasse. Mio papà era genoano e preferibilmente mi portava a vedere il Genoa, il fruttivendolo era sampdoriano e così santificavo anche i blucerchiati, quell’anno peraltro in serie A con Lippi, Lodetti, Suarez e Spadetto (giocherà 175 minuti in tutto, ma tenete a mente questo nome, ora non vi dice niente, ma ritornerà più avanti). A scuola avevo compagni genoani e compagni sampdoriani che ferocemente e continuamente ribadivano la loro appartenenza, con precoci discussioni da bar, a volte ingenue, a volte crudeli; io, che per indole sono sempre stato poco incline alla disputa, prendevo tempo, facevo il simpatico, ora con gli uni, ora con gli altri. Ma non poteva durare a lungo; l’autunno volgeva al termine e il campionato stentava a trovare un padrone ed ecco arrivare in soccorso l’album Panini. Ho 8 anni e per la prima volta sono autorizzato a comprarlo insieme a qualche pacchetto di figurine ogni settimana. Il resto lo faranno gli scambi e le doppie del figlio del macellaio, che ne compra a bizzeffe. Per la prima volta vedo da vicino i volti dei giocatori, le loro divise, i titolari, le riserve, imparo a memoria i nomi degli stadi e dei presidenti. L’anno precedente il Cagliari di Gigi Riva (stadio sant’Elia, presidente Efisio Corrias, medico sociale dott. Augusto Frongia) ha vinto il campionato: lo scudetto si staglia bene sulla maglietta bianca, bordata di rossoblù. Gli altri rossoblù, quelli locali, hanno diritto allo scudetto, ma solo in forma di figurina sbriluccicante perché sono finiti in serie C. La Sampdoria invece, come detto, è in serie A. Ma di tenere per loro non se ne parla, non posso dare un simile dispiacere a papà. Così mentre appiccico le figu con la colla (c’erano anche le celline - triangolini biadesivi da apporre sul retro – ma non conosco nessuno che sia mai riuscito a utilizzarle) e imparo le formazioni a memoria, cerco di immaginare quale potrebbe essere la squadra dietro la quale difendermi o nascondermi, con la quale non prendere parte al rituale degli schieramenti che fatico a comprendere. C’è la Juve che ha già vinto una valanga di scudetti ma coincide con la FIAT e gli Agnelli: non fa per me, ho imparato a diffidare dei padroni sin dalla tenera età. C’è il Milan, ma l’accostamento cromatico rosso e nero mi ha sempre infastidito. La Roma ha delle bellissime Lacoste arancioni, ma quella città è troppo lontana. E poi ci sono i nerazzurri, che nel frattempo hanno cambiato allenatore e hanno cominciato a vincere: ma non credo sia questa la discriminante. Temo che il motivo sia molto più banale: in porta c’è Vieri, in difesa c’è Facchetti. Io non riesco ancora a pronunciare la effe e così lo storpio in Sacchetti. La cosa incontra il gradimento degli adulti – la comicità di quel tempo era piuttosto semplice – e mio papà me lo fa ripetere quando capita, agli amici al bar, in visita parenti la domenica pomeriggio. E io sono felice di vederli sorridere (con la medesima soddisfazione di essere al di fuori degli sfottò nel caso si parli di una delle due squadre cittadine) e il mio papà con loro. Così comincio ad affezionarmi e in primavera divento definitivamente interista.
Quell’anno vinciamo il campionato, convincendomi di aver fatto la scelta migliore.
Avrò modo di ricredermi, ma ormai è tardi.
Il ricordo più nitido di quella stagione è legato comunque al Genoa: il 13 giugno 1971 – la serie A è già finita da qualche settimana – è una bella domenica di sole. Sono allo stadio con papà, settore distinti. I rossoblù stanno per festeggiare il ritorno nella serie cadetta (battono il Rimini per 2 a 1, gol di Speggiorin e Turone); prima del fischio d’inizio un’enorme B di polistirolo sale verso il cielo azzurro sospinta da tanti palloncini colorati. E io me la ricordo come fosse oggi e forse per questo penso sempre al calcio come ad uno spettacolo del quale fatico a comprendere i coinvolgimenti emotivi esasperati. Quell’anno finisco l’album per la prima e unica volta nella mia vita. Ironicamente la figurina che mi fa diventare pazzo è quella del sampdoriano Dino Spadetto (dal ’66 al ’69 all’Inter, 5 presenze due gol) me la regala il solito figlio del macellaio, chissà che fine avrà fatto (il figlio del macellaio; e pure Spadetto).
Ancor più ironicamente qualche anno dopo l’amore mi porta a Milano dove la mia appartenenza non mi mette più al riparo dalle discussioni che tanto rifuggo; ma ormai devo stare al gioco, come si sa le squadre non si cambiano. 
E sì, il mare mi manca. 

venerdì 10 giugno 2016

Genova per noi?

Una sera di qualche anno fa, dopo uno spettacolo teatrale, mi sono ritrovato a parlare al tavolino di un bar con l’antropologo Marco Aime. Lui, torinese, a quell’epoca insegnava a Genova e mi confessava stupito di non aver mai conosciuto un’università al mondo in cui si insegnassero così tante materie relative alla città e alla regione di appartenenza. Nello specifico, Genova e la Liguria. La cosa, dopo qualche commento al retrogusto di Rossese, finì lì, persa tra i complimenti allo spettacolo – tratto da un testo dello stesso Aime – e le chiacchiere stanche delle serate che stanno per finire.
Qualche tempo dopo mi sono trasferito a Milano e ho cominciato a guardare alla città in cui sono nato con un occhio inevitabilmente diverso; soprattutto ho cominciato a guardare ai miei concittadini con un occhio diverso. Mi spiego: nel mio profilo Facebook la maggior parte degli ‘amici’ sono genovesi. Diciamo il 50%. Il resto è sparpagliato in giro per l’Italia, più qualche punto percentuale tra Europa e Stati Uniti. All’inizio non me ne sono reso conto: girellavo sulla timeline soffermandomi a leggere i post più interessanti, più curiosi, come si fa di solito; mettevo mi piace, commentavo o ignoravo secondo la situazione e l’umore. E rivedevo volentieri le immagini della scogliera di Pontetto o del monumento di Quarto, del Porto Antico rosseggiante al tramonto, del cielo incredibilmente azzurro dietro la cattedrale di San Lorenzo, delle facce nei vicoli introvabili altrove, dei tetti di ardesia e delle crêuze di mattoni rossi muschiati di verde. Non dico che fossi colpito da nostalgia, ma un certo qual sentimento di orgogliosa appartenenza si faceva largo dentro di me, che pure ho passioni contrastanti nei confronti di una città di cui sarebbe troppo facile e lungo elencare i demeriti e le occasioni perdute. Improvvisamente un giorno mi è tornata alla mente la conversazione con Aime e un sospetto strisciante ha cominciato a tormentarmi: ho iniziato, dapprima scettico e titubante, poi sempre più convinto, a controllare i profili dei miei amici non genovesi: milanesi, romani, napoletani, veneziani, parigini, londinesi, newyorchesi. Nessuno tra loro postava foto della propria città, perlomeno non con l’inquietante frequenza dei loro omologhi liguri. Nessuna Piazza Navona o Colosseo al tramonto, niente guglie del Duomo di Milano sullo sfondo azzurro (sì, anche a Milano il cielo è azzurro), niente Ponte dei Sospiri o Maschio Angioino in un selfie; per non parlare dei residenti all’estero, autoctoni o emigrati: niente Torre Eiffel e Notre Dame, zero Big Ben e Westminster, nessuna Statua della Libertà, Cristo Redentor, Sagrada Familia; né spiagge di San Diego fotografate con surfisti in tubi di 5-6 metri (come accade invece e in dimensioni notevolmente ridotte, per Bogliasco e Levanto).
La conferma al sospetto era letteralmente sotto i miei occhi: i genovesi, i liguri, anche i più insospettabili, sono i soli a ribadire continuamente, con un autocompiacimento che sconfina nella presunzione, l’unicità e lo splendore della propria città/regione (salvo criticarla ferocemente in conversazioni private, sognando di abbandonarla per cercare fortuna altrove). Prima che il 50% delle persone che sta leggendo queste righe cominci a insultarmi, preciso che sono convinto che Genova sia una delle città più belle d’Italia; ma non sto parlando di questo. Quello che m’interessa capire è perché si senta l’esigenza di affermare continuamente e inesorabilmente questa bellezza e quale sia il rapporto con il proverbiale senso di ospitalità ligure e con lo stato di sostanziale coma in cui versa la città da anni. Magari non c’è alcun rapporto, magari a postare le immagini non sono i commercianti che ti accolgono con ineguagliabile savoir faire, tantomeno la classe politica che è riuscita a far eleggere presidente della Regione Giovanni Toti da Viareggio o la classe imprenditoriale cha ha lasciato all’irpino Enrico Preziosi o al romano Massimo Ferrero la proprietà di due delle più gloriose squadre di calcio italiane. Però…(continua)


PS L’immagine che accompagna questo post è un collage approssimativo di foto tratte da profili social di amici cari che spero vorranno prendere il mio furto come una dimostrazione di autentico affetto. L’insegna di Disco Club non c’entra niente, ma volevo metterla perché è uno dei motivi che mi riportano sempre in città.

lunedì 1 febbraio 2016

Storia di un equivoco: Francesco De Gregori - La leva calcistica della classe '68


Quando nel giugno del 1982 viene pubblicato Titanic, l’ellepi[1] che contiene la canzone di cui andremo finalmente a svelare il vero significato, in Italia Spadolini è a capo di un governo di pentapartito che aprirà la strada a Bettino Craxi, mentre negli Stati Uniti un attore è diventato Presidente: insomma, sta per trionfare l’edonismo reaganiano, lo yuppismo, o molto più all’italiana la Milano da bere. Il paese è già concentrato sugli imminenti mondiali di Spagna e forse per accattivarsi i tifosi, il brano viene scelto come 45 giri per i juke-box[2] (nel lato B un’altra canzone dall’album, Centocinquanta stelle), anche se nelle radio libere[3] si trasmette soprattutto il pezzo che dà titolo all’album. Qualche anno dopo Gabriele Salvatores inserisce la canzone nella colonna sonora di Marrakech Express, nella celebre sequenza della partitella di calcio nel deserto, un’Italia-Marocco a metà tra Pasolini[4] e il terzomondismo. Forse è stato proprio allora che La leva calcistica della classe '68 ha iniziato il suo percorso verso l’immortalità, grazie anche ai solerti giornalisti sportivi RAI che non hanno mancato di infilarla in ogni servizietto di approfondimento sul calcio giovanile, meglio se di periferia. Eppure a leggere bene il testo è evidente che ci troviamo di fronte a un chiaro caso di allucinazione collettiva. Abilmente sedotti da un dodicenne “che sembra un uomo con le scarpette di gomma dura” e che non dovrebbe “aver paura di sbagliare un calcio di rigore”, perché “non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”, critica e pubblico hanno sempre avvalorato un’interpretazione politically correct: che sarà mai sbagliare un penalty, “un giocatore lo vedi dal coraggio dall'altruismo e dalla fantasia”, nello sport come nella vita i valori sono altri. Ma le parole successive, su cui nessuno evidentemente si è mai soffermato, contraddicono impietosamente l’assunto: Nino prende “un pallone che sembrava stregato” e si guarda bene dal passarlo a chicchessia, tanto che “entrò nell'area tirò senza guardare ed il portiere lo fece passare”. E allora tutti a esaltarsi per Nino (ma se non avesse segnato, pensate che gli avrebbero dato la maglia numero sette l’anno dopo?) e nemmeno una parola per il povero portiere di cui non conosciamo neanche il nome (e quanta ambiguità in quel “lo fece passare”, si può già ipotizzare una combine a livello giovanile?). Come se non bastasse ecco l’affondo sui giocatori tristi, quelli “che non hanno vinto mai”: “adesso ridono dentro al bar, e sono innamorati da dieci anni, con una donna che non hanno amato mai”. Insomma autentici falliti che hanno continuato a inanellare sconfitte, dal campo di calcio alla cucina di casa (figuriamoci sul lavoro, ammesso che ne abbiano uno, visto che passano le loro giornate al bar). E allora anche il ’68 del titolo, anagraficamente sbagliato (Nino nel 1982 ha dodici anni, dovrebbe essere nato nel 1970), si rivela un cinico sberleffo per una generazione che proprio in quel momento storico vede profilarsi la sconfitta dei suoi ideali. E pur se la canzone resta uno dei più fulgidi esempi dell’arte cristallina di Francesco de Gregori sia chiaro una volta per tutte: Nino è un veroo stronzo, come tanti altri che abbiamo incontrato sui campetti di calcio. E purtroppo anche fuori.

[1] Supporto in vinile per la memorizzazione analogica di segnali sonori. Molto in voga per tutto il secolo scorso; ultimamente si parla di un suo ritorno, ma per molti non è mai andato via.
[2] Apparecchio da installazione pubblica che riproduce brani musicali in modo automatico in seguito all'introduzione di una moneta al suo interno e alla scelta della canzone da parte dell'ascoltatore. Molto in voga tra gli anni ’50 e ’70.
[3] Espressione riferita alle emittenti radiofoniche nate in Italia dopo la liberalizzazione dell'etere sancita dalla Corte Costituzionale nel 1976. Molto in voga tra gli anni ’70 e ’80.
[4] Poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo e giornalista italiano. Molto in voga negli anni ’70 e nel 2015, quarantennale della sua morte.

mercoledì 13 gennaio 2016

La Corrispondenza, io e Bowie


Lunedì mi sono svegliato e poco dopo Francesca ha scritto su Whatsapp: “Merda, ma è morto David Bowie”. (Per correttezza dico che non ho mai comprato un suo disco fino a due anni fa quando sono rimasto folgorato da The Next Day). Tutti scrivevano sui social dell’alieno che tornava al suo pianeta, della stella che brillava lassù e altre cose del genere, e molti dei miei amici postavano video, foto, immagini, raccontando pezzi della loro vita in cui si erano accompagnati a David. Lentamente la marea cresceva coinvolgendo tutti i media e innescando l’inevitabile risacca di quelli rispondevano dicendo che a loro di Bowie non glien’era mai fregato niente e che musicalmente non era stato in alcun modo importante o influente.
Ho messo Blackstar nel telefonino (che avevo già deciso di comprare, sarebbe stato il mio secondo disco, anche colpito favorevolmente dal fatto che ci fosse il sassofonista Donny McCaslin) e sono andato al cinema a vedere l’anteprima nuovo film di Tornatore, “La Corrispondenza”. Il protagonista è Jeremy Irons nei panni di un luminare dell’astrofisica che ha una relazione con Olga Kurylenko, studentessa nella stessa materia che per guadagnarsi da vivere fa la stuntman (è normale no?). I due sono amanti e si vedono molto poco, ma si scrivono tantissimo: mail, skype, chat, biglietti e lettere, una ‘corrispondenza di amorosi sensi’ quasi esasperata, nemmeno interrotta dal fatto che dopo pochi minuti di film Irons muore.
A colpi improvvisati la storia va avanti (a un certo punto uno della DHL vede Amy-Olga per strada e le dice: scusi signorina, ho un pacco per lei!); e non si può far a meno di ridere quando sempre lei porta ad un amico smanettone una telecamera per recuperare dei video e lui le dice: “Devo farla vedere a qualcun altro, posso?”; lei domanda a chi e lui imperturbabile risponde “Servizi segreti”.
Insomma il solito Tornatore, anche bravo a girare per carità, ma poi disastroso a sviluppare la sceneggiatura, tanto più con dialoghi e frasi - di cui la locandina ci fornisce un fulgido esempio - che sembrano usciti da Un Posto al Sole (sembra un complimento, ma qui stiamo parlando di cinema). Soprattutto asfissiante nel sottolineare e ribadire il significato di ogni scena, anche il più esplicito, come se il suo pubblico fosse incapace di intendere. Così se il professore ultimamente andava all’osservatorio a guardare la nebulosa del granchio (‘cancer in latino), qualche scena dopo il premuroso Giuseppe fa depositare un granchio in mano alla ragazza sempre più disperata. La nebulosa in realtà – dice Wikipedia - è un resto di supernova che si trova a 6500 anni luce dal sistema solare così che quello che si osserva è già scomparso da secoli; insomma la stella è morta e la luce che vediamo noi non esiste più. Avete capito? Anche lui è morto e continua a mandare messaggi, è chiara la metafora? Affogato in tutta questa retorica tautologica il film naufraga dolcemente con il vantaggio, per la mente, di potersi occupare d’altro. Il pensiero così è tornato a Bowie, a Blackstar e a tutta la sua musica, un nugolo infinito che ognuno può ascoltare quando meglio gli pare. Bizzarra e fascinosa corrispondenza: devo mettermi a sentire Bowie, e sono un uomo fortunato, posso comprarlo e ascoltarlo per la prima volta. 
E lo siete anche voi, perché grazie a me vi potete evitare il film di Tornatore.

sabato 9 gennaio 2016

Metto Checco Zalone nel titolo, ma il post parla dei miei dischi 2015

Non mi piace scegliere i migliori dischi dell’anno; ma Giancarlo (non sapete chi è: vabbè, breve spiega. Titolare di Disco Club, negozio di dischi in Genova dal 1965, dove io ho lavorato; sul suo sito articoli e curiosità musicali, scritte da clienti-amici, amici-clienti e nullafacenti) ogni anno mi viene a prendere per un orecchio e mi chiede, mi ordina per la precisione, di mandargli la classifica. 

E allora lo faccio, anche se malvolentieri perché non mi piace mettere in fila i dischi che ho comprato, perché appena ho inviato la lista ritrovo il disco che assolutamente doveva stare nei primi dieci e che ho dimenticato di mettere, perché i dischi che scelgo, io che sento soprattutto jazz, in un negozio prevalentemente di rock non li segnala nessuno e trattandosi di una classifica a punti (dieci al primo, nove al secondo e così via) i miei preferiti non hanno nessuna speranza di entrare nemmeno nei primi trenta (per un certo periodo ho fatto due classifiche, una jazz e una rock, così almeno qualcosa nella seconda si vedeva, poi mi sono stufato). 
Però la faccio anche volentieri anche perché così sono costretto a riprendere dischi che ho comprato dieci-undici mesi fa e che nemmeno mi ricordo di avere, mi costringo a riascoltare quelli che hanno lasciato una buona impressione ed provo anche a rimettere a posto tra le colonne di cd e vinili. 
Ma perché tu quanti dischi compri in un anno?
Boh, 300, 400 chi lo sa, ma mica è questo il punto no?
E allora da quest’anno si cambia: ora scriverò tutti i titoli che acquisto in un bel file di Excel, con una colonna con il voto, così a dicembre sarò preparatissimo; basterà mettere in ordine per colonna C e via, senza ansie e senza oblii.
Intanto vi segnalo il primo del 2016, acquistato a Middleburg, in Olanda (Zelanda per la precisione), in una caffetteria che ha qualche vinile e nel retro una bottega da barbiere. Vi allego foto con sacchetto ricordo e disco; lo so, è vecchio e non potrà partecipare al referendum 2016.
Ma non è questo il punto no?

Steve Coleman - Synovial Joints
Maria Schneider Orchestra - The Thompson Fields 
Vijay Iyer Trio - Break Stuff
Ran Blake - Ghost Tones 
Bill Wells & Aidan Moffat - The Most Important Place In The World
Shilpa Ray - Last Year's Savage
Fred Hersch - Solo
Tobias Jesso jr – Goon
Father John Misty - I Love You, Honeybear
D'Angelo & the Vanguard - Black Messiah


P.s. metto solo dischi che ho e che ho ascoltato; non sono ancora riuscito a comprare i Blur e Paul Weller è ancora lì sigillato, ma mi piaceva scrivere il suo nome.

Un Amore Supremo

In occasione dell'uscita in edicola di A Love Supreme, primo titolo della collezione I Capolavori del Jazz in Vinile, sono andato a ria...