venerdì 10 giugno 2016

Genova per noi?

Una sera di qualche anno fa, dopo uno spettacolo teatrale, mi sono ritrovato a parlare al tavolino di un bar con l’antropologo Marco Aime. Lui, torinese, a quell’epoca insegnava a Genova e mi confessava stupito di non aver mai conosciuto un’università al mondo in cui si insegnassero così tante materie relative alla città e alla regione di appartenenza. Nello specifico, Genova e la Liguria. La cosa, dopo qualche commento al retrogusto di Rossese, finì lì, persa tra i complimenti allo spettacolo – tratto da un testo dello stesso Aime – e le chiacchiere stanche delle serate che stanno per finire.
Qualche tempo dopo mi sono trasferito a Milano e ho cominciato a guardare alla città in cui sono nato con un occhio inevitabilmente diverso; soprattutto ho cominciato a guardare ai miei concittadini con un occhio diverso. Mi spiego: nel mio profilo Facebook la maggior parte degli ‘amici’ sono genovesi. Diciamo il 50%. Il resto è sparpagliato in giro per l’Italia, più qualche punto percentuale tra Europa e Stati Uniti. All’inizio non me ne sono reso conto: girellavo sulla timeline soffermandomi a leggere i post più interessanti, più curiosi, come si fa di solito; mettevo mi piace, commentavo o ignoravo secondo la situazione e l’umore. E rivedevo volentieri le immagini della scogliera di Pontetto o del monumento di Quarto, del Porto Antico rosseggiante al tramonto, del cielo incredibilmente azzurro dietro la cattedrale di San Lorenzo, delle facce nei vicoli introvabili altrove, dei tetti di ardesia e delle crêuze di mattoni rossi muschiati di verde. Non dico che fossi colpito da nostalgia, ma un certo qual sentimento di orgogliosa appartenenza si faceva largo dentro di me, che pure ho passioni contrastanti nei confronti di una città di cui sarebbe troppo facile e lungo elencare i demeriti e le occasioni perdute. Improvvisamente un giorno mi è tornata alla mente la conversazione con Aime e un sospetto strisciante ha cominciato a tormentarmi: ho iniziato, dapprima scettico e titubante, poi sempre più convinto, a controllare i profili dei miei amici non genovesi: milanesi, romani, napoletani, veneziani, parigini, londinesi, newyorchesi. Nessuno tra loro postava foto della propria città, perlomeno non con l’inquietante frequenza dei loro omologhi liguri. Nessuna Piazza Navona o Colosseo al tramonto, niente guglie del Duomo di Milano sullo sfondo azzurro (sì, anche a Milano il cielo è azzurro), niente Ponte dei Sospiri o Maschio Angioino in un selfie; per non parlare dei residenti all’estero, autoctoni o emigrati: niente Torre Eiffel e Notre Dame, zero Big Ben e Westminster, nessuna Statua della Libertà, Cristo Redentor, Sagrada Familia; né spiagge di San Diego fotografate con surfisti in tubi di 5-6 metri (come accade invece e in dimensioni notevolmente ridotte, per Bogliasco e Levanto).
La conferma al sospetto era letteralmente sotto i miei occhi: i genovesi, i liguri, anche i più insospettabili, sono i soli a ribadire continuamente, con un autocompiacimento che sconfina nella presunzione, l’unicità e lo splendore della propria città/regione (salvo criticarla ferocemente in conversazioni private, sognando di abbandonarla per cercare fortuna altrove). Prima che il 50% delle persone che sta leggendo queste righe cominci a insultarmi, preciso che sono convinto che Genova sia una delle città più belle d’Italia; ma non sto parlando di questo. Quello che m’interessa capire è perché si senta l’esigenza di affermare continuamente e inesorabilmente questa bellezza e quale sia il rapporto con il proverbiale senso di ospitalità ligure e con lo stato di sostanziale coma in cui versa la città da anni. Magari non c’è alcun rapporto, magari a postare le immagini non sono i commercianti che ti accolgono con ineguagliabile savoir faire, tantomeno la classe politica che è riuscita a far eleggere presidente della Regione Giovanni Toti da Viareggio o la classe imprenditoriale cha ha lasciato all’irpino Enrico Preziosi o al romano Massimo Ferrero la proprietà di due delle più gloriose squadre di calcio italiane. Però…(continua)


PS L’immagine che accompagna questo post è un collage approssimativo di foto tratte da profili social di amici cari che spero vorranno prendere il mio furto come una dimostrazione di autentico affetto. L’insegna di Disco Club non c’entra niente, ma volevo metterla perché è uno dei motivi che mi riportano sempre in città.

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