lunedì 2 marzo 2015

(P)RE-CENSIONI Perché ascoltare un disco se si può parlarne comunque?

VAN MORRISON
DUETS: RE-WORKING THE CATALOGUE

Sedici canzoni dal repertorio di Van The Man, scelte evitando volutamente quelle più famose, ricreate ognuna con un diverso e stimato collega per altrettanti imperdibili duetti. Questo il riassunto di un ipotetico comunicato ufficiale. La realtà è che dischi così arrivano a fine carriera e hanno il pregio di impegnare relativamente l’artista: dal punto di vista creativo (si usano brani già editi); da quello produttivo (non penserete che i duetti vengano registrati de visu? Ognuno sta a casa, incide con i suoi tempi e i suoi modi, poi si sistema tutto); da quello fisico (la voce comincia a calare e l’aiuto rispettoso è ben accetto). E finiscono per assomigliare all’orologio d’oro regalato al pensionando con encomio solenne; o a una pietra tombale. Anche questo del burbero artista di Belfast non sfugge alla regola: si convoca un po’ di nomi altisonanti - giovani, anziani, donne, uomini, figli, vivi, morti (il bacino dev’essere il più ampio possibile) e il gioco è fatto: come ci ha detto nel suo ultimo disco, Morrison non ha un piano B, sa solo cantare e probabilmente continuerà a farlo fino a che avrà voce e ispirazione. E magari anche dopo.

recensione scritta il 28 febbraio – disco in uscita il 24 marzo

 Tracklist:
“Some Peace of Mind” con Bobby Womack (da Hymns to the Silence, 1991)
“Lord, If I Ever Needed Someone” con Mavis Staples (da His Band and the Street Choir, 1970)
“Higher Than The World” con George Benson (da Inarticulate Speech of the Heart, 1983)
“Wild Honey” con Joss Stone (da Common One, 1980)
“Whatever Happened to P.J. Proby” con P.J. Proby (da Down the Road, 2002)
“Carrying a Torch” con Clare Teal (da Hymns to the Silence, 1991)
“The Eternal Kansas City” con Gregory Porter (da A Period of Transition, 1977)
“Streets Of Arklow” con Mick Hucknall (da Veedon Fleece, 1974)
“These Are The Days” con Natalie Cole (da Avalon Sunset, 1989)
“Get On With The Show” con Georgie Fame (da What’s Wrong with This Picture, 2003)
“Rough God Goes Riding” con Shana Morrison (da The Healing Game, 1997)
“Fire in the Belly” con Steve Winwood (da The Healing Game, 1997)
“Born To Sing” con Chris Farlowe (da No Plan B, 2012)
Irish Heartbeat” con Mark Knopfler (da Irish Heartbeat, 1988)
“Real Real Gone” con Michael Bublé (da Enlightenment, 1990)
“How Can A Poor Boy” con Taj Mahal (da Keep It Simple, 2008)

mercoledì 11 febbraio 2015

I miei tempi di Sanremo

Ai miei tempi il Festival di Sanremo non si guardava; non era una presa di posizione, non era un atto politico o rivoluzionario, semplicemente non ci veniva nemmeno in mente di guardarlo. Avevamo di meglio da fare, alcuni, o non avevamo nient’altro da fare e allora ci annoiavamo struggendoci d’amore probabilmente; ma di guardare il Festival nemmeno il pensiero. Nel 1978 per esempio, l’edizione dei miei sedici anni, a presentarlo c’erano Stefania Casini con Beppe Grillo (non è un caso di omonimia), in gara c’era Anna Oxa (fu esibita come una cantante punk, figuriamoci, “Un’emozione da poco” l’ha scritta Ivano Fossati: non è un caso di omonimia), i Matia Bazar, che vinsero, Rino Gaetano e Roberto Carrino (chiunque egli sia; e se oggi vedete il suo nome su un furgoncino di una ditta di pulizie, probabilmente non è un caso di omonimia). Ma noi, beati, non lo guardavamo: anche perché la RAI, allora ancora cosciente, trasmetteva le prime due serate alla radio e solo l'ultima in TV. Figuriamoci, il sabato, stare a casa a vedere Sanremo.

Ai miei tempi un po’ più avanti, nel 1992, poteva capitare che Alfredo, un amico che arrotondava l’università lavorando per la Doxa, ti chiedesse se ti andava di far parte delle giurie popolari sparse nelle sedi regionali RAI; e addirittura se avevi qualcuno da portare. Così in una dozzina ci siamo ritrovati in corso Europa, a Genova, in una sala con un mega schermo, tipo una televisione normale di oggi (e un bel buffet a dire il vero), a ridere di Pippo Baudo e dei vestiti delle vallette (una adesso fa l’opinionista), a fare battute salaci sui testi delle canzoni che ascoltavamo increduli, a votare a caso (quell’anno Pupo  - lui, ora lavora in un TV albanese - eliminato dalla finale, denunciò i brogli dichiarando pubblicamente di aver "comprato" il 4º posto nel 1984). E a sperare che almeno non vincesse Barbarossa con quell’odiosa canzone in cui portava a ballare la mamma, che noi, i genitori, non avevamo ancora smesso di ucciderli (e meno male, che chissà dove saremmo andati a dormire).


Ai miei tempi, oggi, che sono ancora i miei tempi nonostante tutto, piuttosto che guardare Sanremo scelgo su un film che ha vinto non so come e perché 5 o 6 premi Oscar, ambientato in Iraq e in cui ogni dieci quindici minuti c’è da disinnescare una bomba. Giro sul primo canale una sola volta, giuro, e c’è uno che parla di cristo e della provvidenza, con dieci figli dieci. Finito il film vado a letto e mi addormento sereno (più o meno). La mattina dopo, mentre accompagno Sofia a scuola, incontro la figlia liceale dei miei vicini di casa: un colpo di genio e le chiedo: “Hai visto Sanremo?” Mi guarda strano; le dico, il festival, in tv. “Ah”, risponde, “in camera mia non ho la tv, solo il computer, ieri sera abbiamo guardato You Tube con le amiche, non ho visto Sanremo. Cos’è?” Mentre torno indietro, apro Facebook e Twitter dove molti miei amici, veri e di social, invero più giovani, tra i trenta e i quaranta, ridono di Carlo Conti e dei vestiti delle vallette, fanno battute salaci sui testi delle canzoni fino a quando non gli hanno bloccato l’account, vai a sapere perché. 
E sperano che almeno non vinca Grignani, che va bene dargli due colpi, ma non si può proprio sentire.

ps. Questo video si riferisce all'edizione del 2000, roba che nemmeno Scorsese o Coppola hanno osato immaginare. Ringrazio chi me lo ha ricordato, lui, giovedì è sul serio a Sanremo. 

giovedì 5 febbraio 2015

Whiplash: come dare torto a Tracey Thorn?

Che un film come Whiplash abbia ricevuto cinque nomination agli imminenti Oscar può essere letto in due soli modi: come l’imbarbarimento finale del cinema contemporaneo o come il rincoglionimento definitivo di chi sta scrivendo queste righe. Andrew Neyman ha diciannove anni e un solo obiettivo: diventare come Buddy Rich. (Per chi non lo sapesse il suddetto Rich è un batterista jazz molto famoso negli anni ’50, dotato di straordinaria tecnica e di una potenza e velocità senza eguali - che sfogava in memorabili ‘battle’ con i colleghi dell’epoca -  un maestro per tutta una generazione di spaccatamburi senz’anima). Per riuscire nell’impresa è disposto a tutto, a sacrificare gli affetti, gli amici, la prima timida ragazza che chissà cos’ha trovato in lui; e soprattutto è disposto a farsi maltrattare, schiaffeggiare, umiliare da Fletcher, il direttore di una scuola che assomiglia più a Parris Island di Full Metal Jacket (c’è anche il trombonista Palla di Lardo, state tranquilli) che alla High School of Performing Arts di Saranno Famosi.
Infatti non ci sono donne (anche la mamma di Andrew è scomparsa appena ha capito che suo marito altro non era che uno scrittore fallito: una delle mille amabili frasi con cui Fletcher motiva il ragazzo); e quando a suonare il sassofono è una ragazza, è solo per cinque secondi, abbastanza per capire che il jazz non è roba da femmine. Invece ci sono l’omosessualità, latente e dichiarata, almeno a livello d’insulto e il sangue, a fiotti, in ralenti e grandangolo, sui tamburi e sui piatti (e anche sui volti), che sgorga dalle mani piagate per lo sforzo e la fatica. Insomma la musica è sofferenza (e può essere), ma soprattutto è una battaglia in cui il nemico è ovunque, in chi ti sta a fianco (i batteristi sostituti che a turno diventano titolari per umiliare l’altro), in quelli che suonano con te (mai degnati di uno sguardo in due ore di film), nel tuo maestro che è non esiterebbe a ucciderti se servisse a farti suonare meglio e che forse sei tu che devi uccidere per liberare il genio che nascondi in fondo a te (ma molto in fondo).
Tutto questo annegato in un contesto musicale pressoché nullo, tanto pleonastico e scolastico è il jazz che si ascolta: anche stendendo un velo sul momento in cui Fletcher in un localino azzarda un pezzo al pianoforte, resta la musica dell’orchestrina, un paio di brani – tra cui ‘Caravan’ in una versione incurante della magia esotica della scrittura ellingtoniana – che forse piacerebbero a quel Wynton Marsalis, spesso evocato come la realizzazione finale di ogni buon musicista.

Io, che per prepararmi mi ero anche rivisto L’uomo dal braccio d’oro (dove Sinatra la batteria imparava a suonarla in carcere ed era il suo modo di provare a star meglio nella vita), con le note di Shorty Rogers e le bacchette di Shelly Manne (bianco come Rich, ma che differenza, fidatevi anche se non siete dei jazzofili incalliti), mi sono ritrovato a odiare tutti, il maestro, l’allievo, gli orchestrali, la musica: forse lo scopo del film è proprio questo, ridurre anche lo spettatore nella condizione hobbesiana di homo homini lupus. E forse la realtà è davvero questa e io, che mi sono rincoglionito per davvero, non me ne sono nemmeno accorto.

lunedì 8 dicembre 2014

Il fondamentalista critico e Michel Petrucciani

Si scrive di musica sostanzialmente per tre motivi: per guadagnarsi da vivere (bravi quelli che ci riescono, disprezzati e diffamati dalle due restanti categorie); per passare il tempo (trattasi di situazione transitoria verso una delle altre due, perché dopo un po’ o si guadagna o si scopre che c’è di meglio da fare); e infine perché si è fondamentalmente convinti (l’avverbio non è scelto a caso, abbiamo a che fare in questo caso con fondamentalisti integralisti, anche se non islamici, almeno nel mondo occidentale) di essere gli unici a capirci qualcosa.
Quest’ultima categoria è la più interessante dal punto di vista antropologico in virtù del fatto che, come detto, la seconda si dissolve nelle restanti e la prima è solo una variazione di qualunque altro mestiere in cui il salario non coincide con il lavoro svolto (ad esempio i parrucchieri per signora, i custodi dei musei pubblici, i coristi dei teatri lirici). L’attività del critico fondamentalista si manifesta nei confronti del prodotto musicale (da qui in avanti ‘disco’) prevalentemente in due direzioni: stroncare senza pietà il disco, meglio se di successo o se autorevolmente recensito da un critico salariato; esaltare iperbolicamente il disco, meglio se sconosciuto ai più, critici salariati compresi. Studieremo più a fondo prossimamente quali pericolosi intrecci possano realizzarsi dall’intersezione di queste due sole linee direttrici; per adesso limitiamoci a considerare il caso in cui al critico fondamentalista venga recapitato da un amico (amico non per frequentazione musicale, perché il fondamentalista rifugge ogni contatto con i soggetti dei suoi studi) un disco, ad esempio di un quartetto jazz. Che te ne pare gli chiede il simpatico drummer? Il disco è dedicato a un noto musicista francese, scomparso da qualche anno, un pianista che ovviamente il nostro ben conosce. Dopo un paio di ascolti coscienziosi il verdetto è lapidario, benché ammantato di diplomazia: siete tutti e quattro bravissimi, ma sai, io non sono un fan del trombettitsta (il più conosciuto del gruppo, niente di che, ma tanto basta a renderlo nocivo) e mi sembra un disco così leggero… L’amico sinceramente ringrazia, salvo rifarsi vivo qualche settimana dopo, felice, per la notizia che il disco è entrato nella Top jazz dei più venduti. Negli Stati Uniti. Poi una mattina una mail dalla casa distributrice segnala l’ingresso nella Top 30 vicino a Chick Corea e Wayne Shorter. Il critico è combattuto: cambiare immediatamente opinione, in tutta fretta scrivere una recensione per il sito (da dove lancia strali indisturbato), inneggiando al prodotto italiano e ribadendo la sua antica amicizia con i protagonisti o arroccarsi sulla sua posizione segnalando l’inevitabile ascesa in classifica di un prodotto commerciale e quindi ripugnante?

Nel dubbio segnalo il disco “Michel On Air - omaggio a Michel Petrucciani” di Fabrizio Bosso, Alessandro Collina, Marc Peillon e Rodolfo Cervetto. Per Natale un’ottima idea regalo, ma non ditelo a mio cugino.

lunedì 24 novembre 2014

La Musica del Natale

Manca ormai un mese al Santo Natale, santo soprattutto per le case discografiche che tentano in questo periodo di arginare l’endemica crisi che attanaglia il loro prodotto, sia esso in cd, vinile o liquido mp3. Ironicamente la stagnazione generale finisce per favorire proprio il ‘disco’, un modo economico e dignitoso per sfangare la mesta e doverosa litania del regalo natalizio. Fioccano le antologie, magari risuonate come nel caso di De Gregori (che detto per inciso avrebbe fatto meglio a lasciar stare le sue vecchie canzoni) o i dischi in edizione delac (de-luxe per chi non conosce il lessico del ‘Pluriespulso’), come quello di Mario Biondi che a un anno esatto dall’uscita di “Mario Christmas” (attenzione alla finezza: in inglese il nome del Biondi suona come “merry”) manda sugli scaffali “A Very Special Mario Christmas”, un cofanetto cd+dvd che raccoglie il vecchio album con l’aggiunta di tre nuovi brani e le immagini dell’emozionante concerto di Natale del “Sun Tour”. Insomma si riciccia quel poco che si ha (d’altronde le canzoni in tema quelle sono) e si spera che qualcosa succeda. E poiché non si butta via niente, fioccano anche i Concerti a tema: il primo ad essere annunciato, per ora, è quello che si terrà il 13 dicembre all’Auditorium Conciliazione a Roma. Presentati da Max Giusti (una sicurezza) sul palco si alterneranno GRANDI ARTISTI (maiuscolo nel comunicato) italiani e internazionali: in rigoroso ordine alfabetico Alessandra Amoroso, Renzo Arbore, Chiara, Dolcenera, Alice Mondìa, Mariella Nava, Daniele Ronda, Sugarpie & The Candymen, Suor Cristina e per i più piccini, dal mondo dei cartoni animati Le Winx. La créme de la créme della musica italiana, in particolar modo Le Winx che probabilmente si annunciano come il momento più interessante della serata. Inevitabile il coro gospel e quello di voci bianche e ciliegina sulla torta la “sacerdotessa del rock” (trattandosi di Natale meglio rimanere sull’ecclesiastico) Patti Smith, da sempre vicina alle istanze di rinnovamento portate avanti da nostro signore Gesù. Di cui si celebra la nascita, lo ricordiamo per i distratti.  Naturalmente il ricavato (esclusi i costi, è ovvio) finirà in beneficenza e per godere del tutto basterà accendere la tv la sera del 24 e gustarsi la registrazione di siffatto avvenimento epocale. Ancora un mese, tenete duro.


lunedì 17 novembre 2014

Aston Villa, Walter Benjamin e l’Atomium di Bruxelles


Sabato 15 novembre avrei dovuto presentare un incontro con Jonathan Coe nell’ambito della benemerita rassegna Genova Legge. Avrei, perché l’incontro non c’è stato a causa dell’ennesima alluvione che ha funestato la città. Ovviamente l’annullamento non è stato che un infinitesimo accadimento tra i mille e ben più gravi che sono avvenuti. Ma non nego che alla notizia ho provato una particolare delusione per l’occasione sfumata. Perché Coe è uno degli scrittori con cui condivido le principali passioni, la musica e il cinema. I suoi libri ne sono intrisi: spesso i suoi protagonisti fanno i critici cinematografici o musicali (il Doug Anderton di “La Banda dei Brocchi” che capita ad uno dei primi concerti dei Clash a Fulham nel ’76 o Terry di “La Casa del Sonno” che passa la sua vita a cercare la prova dell’esistenza di un film neorealista di Salvatore Ortese); e la musica può servire da introduzione (come accade con “Questa notte mi ha aperto gli occhi” in cui ogni capitolo è preceduto da una citazione di una canzone degli Smiths); e il cinema da asse portante di tutta la narrazione (“La Famiglia Winshaw” gira tutta intorno a una scena di “Sette Allegri cadaveri”). Insomma mi ero immaginato un incontro con un amico se non addirittura con un fratello separato alla nascita (accade in “La Casa del Sonno”) con il quale parlare di Hitchcock (indubbiamente uno dei suoi amori come dimostra l’esergo di “Expo 58“) o degli High Llamas, uno dei gruppi preferiti da Coe, tanto che un articolo scritto in occasione di un’antologia del 2003 – “Retrospective, Rarities and Instrumentals” - è stato poi incluso nel booklet del cd. Soprattutto, durante la cena prevista al termine dell’incontro, avrei tirato fuori dal mio sacchettino verde (di Disco Club, c’erano dubbi?) “Different Every Time Vol. 1 Ex Machina” (o il “Vol. 2 Benign Dictatorships”?) di Robert Wyatt, appena acquistati in vinile; e gli avrei chiesto di dedicarmelo. Sì, perché Jonathan Coe ha firmato l’introduzione a una biografia autorizzata su Robert Wyatt, appena pubblicata in Inghilterra (“Different Every Time“, si chiama come le due antologie, disponibile su Amazon anche in versione Kindle) e in un’intervista che avevo trovato per prepararmi avevo letto una limpida dichiarazione dei suoi gusti musicali: “Sono un ascoltatore eccentrico. So chi sono i più bravi, per esempio Bob Dylan o Beethoven, ma io preferisco la seconda divisione. Per questo amo Debussy, Ravel e per il rock, Robert Wyatt“. Insomma, io adoro questo scrittore e spero prima o poi di riuscire ad incontrarlo; gli do un consiglio intanto, cerca di arrivare a Genova prima che la pioggia cada.
ps il titolo dell’articolo, apparentemente bislacco, è ispirato ai temi di tre domande che avrei voluto fargli. Le tengo per la prossima volta Jonathan.


Un Amore Supremo

In occasione dell'uscita in edicola di A Love Supreme, primo titolo della collezione I Capolavori del Jazz in Vinile, sono andato a ria...