lunedì 11 giugno 2012

Losing my religion


Nel suo ultimo libro - “Futuro” - l'antropologo Marc Augé definisce i grandi concerti del rock come gli ultimi riti di massa della società contemporanea. La definizione è probabilmente eccessiva (il calcio? i comizi di Rutelli?), ma se con una lieve forzatura proviamo invece a immaginare il rock come una religione monoteista, è possibile individuare molte chiese o sette al suo interno, spesso anche in aperto contrasto tra loro, con idoli, santi e martiri ai quali i devoti dedicano un culto a volte maniacale ed esclusivo. Nella scorsa settimana mi è capitato di assistere a due riti: il primo officiato da Ian Anderson (l'ex leader dei Jethro Tull è in tournée con un impeccabile spettacolo che ripercorre “Thick As A Brick”, lo storico album che compie 40 anni) di fronte a circa duemila fedeli, tendenzialmente maschi ultra-quarantenni sovrappeso e con una certa qual sciatteria nell'abbigliamento (alcuni con figli, non si sa se convinti delle bontà delle scelte del genitore o deportati con la forza o l'inganno). Queste caratteristiche permettono d individuare in quei duemila fortunati una setta, “gruppi che hanno credenze, miti e ritualità differenti rispetto a quelli della religione o della mentalità dominante”. Sessantamila invece i fedeli presenti a San Siro per la prima data italiana del “Wrecking ball tour” di Bruce Springsteen: qui impossibile definire una tipologia precisa, uomini e donne sono equamente rappresentati, così come le età, i look ed i redditi; qui siamo più dalle parti della chiesa vera e propria, intesa come “una comunità che raggruppa i fedeli di una stessa confessione”. In entrambi i casi però e fatte le debite proporzioni, i devoti seguono comportamenti molto simili: il culto infatti, inteso come “la totalità della pratica religiosa esteriore”, si adempie con una serie di condotte simili, anche nel caso di religioni (leggi generi musicali) molto lontane tra loro: all'ingresso dell'officiante l'entusiasmo raggiunge apici dionisiaci, poi durante la funzione il fedele partecipa in maniera più o meno entusiasta, a tratti unendosi al canto con cori (non sempre impeccabili) e danze (sempre improbabili), che hanno quale unico scopo di caratterizzare l'appartenenza, in un crescendo entusiasmante e finale che lascia svuotati di ogni energia e di ogni pensiero negativo. Scrive sempre Augé che che quando il rito si esaurisce si trasforma in mito; inutile dire che anche qui ci siamo, perché quando per ritiro dalle scene o prematura scomparsa del musicista non è più possibile officiare “dal vivo”, ecco la comparsa del mito, sia Elvis, Hendrix o Cobain; con la segreta speranza che prima o poi, anche dopo i tre giorni canonici, l'amato soggetto di culto possa risorgere.

Ps mentre scrivevo queste righe mi è capitato di leggere il blog del cardinal Assante dedicato al concerto di Springsteen. Ogni religione ha i suoi santi, i suoi alti prelati e i suoi modesti curati di campagna: http://assante.blogautore.repubblica.it/2012/06/bruuuuuuuce/




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