lunedì 14 febbraio 2011

... del bel paese là dove 'l sì suona


Non ci sono né Gaber (“io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”), né Fabri Fibra ("voglio andare in Inghilterra, in Inghilterra sei al verde avrai un sussidio, in Italia sei al verde io non t’invidio”), ma nemmeno “Azzurro” e “Volare” che pure ben avrebbero rappresentato un’Italia che ancora credeva nei sogni. Stiamo parlando del Festival di Sanremo e della serata di giovedì 17 febbraio, Nata per unire,

dedicata ai 150 anni dell'Unità (dove avrebbero dovuto esserci l'inno partigiano “Bella Ciao” e quello fascista “Giovinezza”; ma, come ha affermato candidamente Gianni Morandi, “per non scontentare abbiamo deciso di toglierle tutte e due”). Quattordici canzoni, interpretate dai big in gara, scelte con criteri dettati dal più classico cerchiobottismo all’italiana, quasi un Manuale Cencelli della canzonetta, che ha ovviamente tagliato fuori una buona metà del paese (quella che davvero ascolta musica e che non guarda Sanremo). Vediamo le scelte e cerchiamo di comprenderne i reconditi motivi: si parte, in ordine cronologico (non sappiamo quello di presentazione al pubblico) dal 1842 con il “Va' pensiero” di verdiana memoria, che se pur cantato dagli Ebrei prigionieri in Babilonia è ormai l’inno ufficiale dell’Italia leghista (intona Al Bano, unico tenore leggero disponibile). Sempre a meta del XIX secolo si colloca “Addio,mia bella, addio”, inno patriottico per eccellenza (già remixato all’epoca da imboscati e disertori che cambiavano la terza strofa in “Addio mia bella addio,
che l’armata se ne va e però non parto io, ché invece resto qua”), scelto sicuramente per compiacere il ministro della Difesa La Russa (interpreta Luca Barbarossa, da sempre vicino al PD, per rimarcare che anche la sinistra è vicina ai nostri soldati). Sempre a metà ottocento risale “Mamma mia dammi 100 lire” (Max Pezzali),
un canto di emigrazione nato probabilmente in Veneto, molto diffuso in tutta l'area padana, ancora un gentile omaggio al fido alleato leghista. Del 1898 è invece “'O sole mio” di cui c’è poco da dire: scelta per compiacere forse Alessandra Mussolini o forse la vecchia DC di Rotondi, certamente tutto l’elettorato meridionalista in genere (canta Anna Oxa, di salde origini albanesi, perché terroni ed extracomunitari li rispettiamo entrambi). Nel 1915 Aniello Califano e Enrico Cannio scrivono “'O surdato 'nnammurato”, tono allegro e spensierato per la triste descrizione della vita di un soldato al fronte durante la Prima guerra mondiale, che soffre per la lontananza dalla donna di cui è innamorato. Ancora La Russa, magari in visita alle truppe italiane in Afghanistan. (Stendiamo un velo più che pietoso sul fatto che la canterà Roberto Vecchioni). Arriviamo al ventennio con “Parlami d'amore Mariù” (La Crus: era proprio necessaria la reunion?), resa immortale dalla voce di Vittorio De Sica, che la interpretò nel film “Gli uomini, che mascalzoni” di Mario Camerini. Siamo in piena era dei telefoni bianchi (lo status symbol del periodo); non ancora intercettati però, e qui il pensiero vola ai mille problemi del nostro Primo ministro con tutte le Mariù dei nostri giorni. Ancora ventennio con Patty Pravo (da non credere eh?) e “Mille lire al mese”, probabilmente voluta da Tremonti (ma a Confindustria e Marchionne non dispiacerebe, con l’inevitabile adeguamento in euro). Con “Mamma”, cantata all’epoca da Beniamino Gigli (e qui dalla neo-mamma Anna Tatangelo: lacrime a non finire) arriviamo al 1940; per la venerazione verso l’illustre genitrice del nostro premier non sembrano esserci dubbi sui motivi della scelta. Improvvisamente si salta di altri vent’anni ed ecco “Il cielo in una stanza”, l’amore bohémien con la canzone forse più celebre di Gino Paoli, parolata da Mogol, che in prima serata a Sanremo promette una bella mitragliata di SIAE per i due autori (Giusy Ferreri, speriamo non si lamenti come suo solito). Sei anni dopo ed è “La notte dell'addio” forse un monito per Fini, forse un regalo all’euro-parlamentare PDL Iva Zanicchi per una canzone di cui tutto si può dire, ma non che abbia fatto la storia d’Italia musicale (a cura del redivivo Luca Madonia con Franco Battiato). Del 1971 è “Here's to you” scritta da Ennio Morricone per i titoli di coda del film di Giuliano Montaldo “Sacco e Vanzetti”, dove la cantava Joan Baez: vocazione pacifista e cattolica (Modà-Emma). Ancora un Mogol, annata 1972, quando, appena separato dalla moglie, incontra il nuovo amore e lo consacra con “Il mio canto libero”, evidente anelito divorzista (arriverà qualche anno dopo in Italia), ma che testimonia anche di una destra laica che certo non vuol tornare indietro ai tempi dell’oscurantismo clericale. Il monumento alla paraculaggine è inconfutabilmente Davide Van De Sfroos con Viva l'Italia”: il cantautore, in passato al centro di polemiche per il dialetto lumbard e la sua presunta vicinanza alla Lega, si confronta con De Gregori (e cosa può dire qui la sinistra?) e la canzone che accompagnò i congressi del PSI per tutto il quindicennio di gestione craxiana. Omaggio inevitabile al leader maximo (del quale anche lo stesso De Gregori ha nostalgia: "se ripenso a Craxi credo che intellettualmente sia molto superiore a tanti politici di oggi”). Infine il titolo che più di ogni altro non rappresenta l’Italia (che evidentemente non è stata ancora fatta), ma “L'italiano”, in particolare quello fatto da sé: sarà
Tricarico a urlare a squarciagola, probabilmente con tutto l’Ariston in coro, quelle che potrebbero essere le parole pronunciate da Silvio Berlusconi di fronte ai giudici (se mai un giorno ci si troverà davanti): “Lasciatemi cantare
con la chitarra in mano,
lasciatemi cantare
una canzone piano piano.
Lasciatemi cantare,
perché ne sono fiero:
sono un italiano, un italiano vero”. Un’arringa difensiva al quale nessuno potrà resistere. E via, tutti in coro, per l’inno di Mameli finale. Il resto ovviamente è noia. No, non ho detto gioia.

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