martedì 12 aprile 2011

Glocal hero



Venerdì 8 aprile alla Salumeria della Musica di Milano, il concerto di Aloe Blacc, la stella nascente del new-soul (“Good things” l’album, “I need a dollar” il singolo): quattrocento persone, pubblico di trenta-quarantacinquenni, molte ragazze, look casual, ma ricercato; il bar offre taglieri misti, accompagnati da vino o birra. Sabato 9 aprile, il PalaSharp, di Milano ospita il suo ultimo concerto (sarà abbattuto per ricavare spazio per il sempre più misterioso Expo 2015; intanto la città perde l’unico luogo capace di ospitare eventi musicali a capienza medio-alta). Sul palco il rapper Nas insieme all’enfant de famille Damian Marley (“Distant relatives” il loro disco insieme): quattromila persone circa, moltissimi giovani, arrivati anche da lontano (Puglia, Veneto), no-look, tra il centro sociale e la moda di periferia, colori giamaicani e afrori dolciastri. Le baracchette fuori arrostiscono birra e salciccia. Si potrebbe continuare a lungo ricordando il recente concerto di Mariza, la cantante nata in Mozambico che presenta il suo nuovo cd, “Fado tradicional”, in uno dei templi della musica classica, il Teatro dal Verme; o gli Eels all’Alcatraz, il luogo per eccellenza dell’ indie-rock. Pubblici diversi, fortemente caratterizzati, immediatamente riconoscibili, ma soprattutto raramente permeabili: molto difficilmente lo spettatore di uno dei concerti citati ha assistito anche ad uno degli altri (non solo per motivi economici); molto probabilmente lo spettatore di uno dei concerti citati non ha mai nemmeno sentito nominare uno degli altri nomi citati. In epoca di globalizzazione (o presunta tale) sembra che la musica abbia completamente perso la sua capacità di attirare trasversalmente le persone: i tanto vituperati generi hanno creato, sempre più, altrettante nicchie in cui gli ascoltatori si rifugiano confortevolmente, accontentandosi di ritrovare all’infinito le sonorità che più riconoscono. Tutto lecito ovviamente; se non fosse che dopo la sbornia degli anni ’70 in cui addirittura il rock e la classica o il rock e il jazz provavano a confrontarsi vicendevolmente, dopo la ‘world music’ che sembrava affermare la possibilità di una musica universale (quanto feconda è un altro discorso, ovviamente) assistiamo sempre più a quello che i sociologi - in tutt’altro campo - chiamano ‘glocalizzazione’, una crasi tra globale e locale applicata ai generi musicali. C’è da dire che questo fenomeno riguarda più il pubblico che i musicisti: Kanye West nel suo ultimo album “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” campiona i King Crimson di “In the court of the Crimson King” e Nas il giro di basso di In-A-Gadda-Da-Vida; ma quanti tra i loro fan se ne rendono conto? E nel caso, quanti sarebbero minimamente incuriositi da quei dischi? Crediamo pochi e non prendiamo nemmeno in considerazione l’idea opposta, cioè che il seguace di Robert Fripp o degli Iron Butterfly sia men che lontanamente interessato a scoprire cosa si agita nel mondo rap per esempio. Tutti al sicuro nella loro tranquillizzante celletta in cui non entrano i rumori del mondo. Forse anche così, ci s’impoverisce giorno dopo giorno.

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