martedì 11 maggio 2010


"Arrivò inaspettato il suono di una pianola. Riconobbi subito le note di quella canzone (...) Tra le fessure degli scuri potevo vedere via Cantoni deserta e la pianola di legno nero in un mare di luce abbagliante. Alcune operaie di una bottega artigiana stavano sedute sul gradino dell'ingresso, nel filo d'ombra della parete, a guardare due di loro che si erano messe a ballare". Inizia così "Ragazzo della Bovisa", un libro di Ermanno Olmi pubblicato nel 2004 e tratto da un progetto cinematografico interrotto per motivi di salute (la musica e la danza aprivano anche un suo bellissimo film di quarant'anni prima, "I fidanzati", con una lunga scena ambientata in una balera di periferia). Più avanti nel racconto, quando il giovane protagonista è sfollato in una colonia al lago per sfuggire ai bombardamenti della guerra, la musica ritorna, con i ragazzi che scrivono sotto dettatura di un compagno le parole di "Ma l'amore no" per poi cantarla tutti insieme (se volete risentirla, ma non vi piace la versione di Beniamino Gigli, sul web si trova una recente versione di Mike Patton, sì, il cantante dei Faith No More, con orchestra dal vivo). Sono ritratti di un'Italia popolare che forse non esiste più; (sicuramente non esiste più un popolo italiano, ma questo è un altro discorso). Invece la musica ha progressivamente aumentato la sua presenza, fino a diventare pressoché ossessiva in ogni contesto pseudo-sociale. Solamente, non scegliamo più quello che vogliamo ascoltare, ma lo subiamo, più o meno passivamente. Sfortunatamente la profezia di Brian Eno non si è verificata: l'ambient intorno a noi è cacofonia che ci rincorre, con canzoni che suonano come jingle pubblicitari e videoclip che ci scrutano dai luoghi più impensati. Un vero incubo orwelliano, in cui il Big Brother non ha la voce di Janis Joplin, ma lo squittio sardonico di Maria De Filippi; e le mostruose fattezze di tutti i figli dei Pooh!

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